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Monte del Tempio: la libertà negata

Andrea Molle

Tempo di Lettura: 4 min
Monte del Tempio: la libertà negata

L’apparizione di Itamar Ben Gvir sul Monte del Tempio ha sollevato un’ondata di polemiche e preoccupazioni a livello internazionale. Il ministro israeliano per la Sicurezza nazionale ha partecipato a un momento di preghiera in quello che è forse il luogo più sacro dell’ebraismo, suscitando l’indignazione dei palestinesi, l’allarme della Giordania e un coro di critiche da parte di molti osservatori occidentali. Il gesto è stato descritto come una provocazione, una violazione dello «status quo».

Ma la domanda che in pochi osano porre apertamente è un’altra: perché mai dovrebbe essere uno scandalo che un ebreo preghi sul Monte del Tempio? Perché un luogo sacro dell’ebraismo dovrebbe restare, per legge o prassi, interdetto agli ebrei?

Il cosiddetto «status quo» risale al 1967, quando Israele riconquistò Gerusalemme Est durante la Guerra dei Sei Giorni. Pur avendo ottenuto il controllo militare della Città Vecchia – e quindi anche del Monte del Tempio – il governo israeliano, allora guidato da Levi Eshkol, scelse deliberatamente di lasciarne la gestione quotidiana al Waqf islamico, sotto tutela giordana.

La decisione fu motivata dal desiderio di evitare un’esplosione di protesta nel mondo arabo e di mostrare moderazione. In quella scelta si consolidò un compromesso: agli ebrei era permesso visitare il Monte del Tempio, in orari limitati, ma non pregarvi. Un’auto-limitazione che avrebbe dovuto garantire la stabilità.

Ma questo equilibrio si è trasformato nel tempo in un assurdo paradosso giuridico e morale, dove i membri di una religione non possono pregare nel luogo che per essi rappresenta il centro stesso della fede.

Oggi, più di mezzo secolo dopo, è lecito chiedersi se quello status quo abbia ancora senso. Il Monte del Tempio è chiamato così perché lì sorgevano il Primo e il Secondo Tempio, cuori pulsanti della religione ebraica fino alla loro distruzione. La roccia su cui si poggia oggi la Cupola dorata è, per la tradizione ebraica, il luogo della creazione del mondo e del sacrificio di Isacco. Eppure, mentre ai musulmani è garantito pieno accesso e libertà di culto, agli ebrei viene imposto di salire in silenzio, accompagnati dalla polizia, senza pronunciare una benedizione né mormorare una preghiera. Anche solo muovere le labbra può essere motivo di espulsione o arresto.

In questa vicenda si riflette un problema più ampio: l’idea, diffusa nella maggioranza del mondo musulmano e anche in quello laico occidentale, che la tolleranza debba essere a senso unico. Mentre si pretende – anche giustamente – libertà di culto per i musulmani ovunque nel mondo, dall’Europa agli Stati Uniti, quando si tratta di garantire anche agli ebrei o ai cristiani il diritto di pregare in luoghi considerati contesi, come il Monte del Tempio, si alza immediatamente il muro del rifiuto.

È una concezione distorta della coesistenza, fondata non sulla reciprocità ma sul monopolio spirituale, che nei fatti nega la dignità religiosa dell’altro.

È vero: Ben Gvir è una figura controversa, e il suo gesto può essere letto anche in chiave politica, se non elettorale. Ma non è su di lui che deve cadere tutta l’attenzione. Il problema è più profondo. Le reazioni che si scatenano ogni volta che un ebreo osa pregare in quel luogo rivelano un’asimmetria intollerabile.

La convivenza non può poggiare sul principio che uno solo dei gruppi religiosi presenti abbia il diritto esclusivo di culto. Soprattutto quando l’altro gruppo ha un legame storico, culturale e spirituale con quel sito ben più antico e documentato di quanto si voglia riconoscere nei comunicati ufficiali del Waqf o della propaganda palestinese, che viene assorbita senza alcun filtro dalla stampa occidentale.

La questione del Monte del Tempio non si risolve con proclami né con divieti. Servirebbe coraggio politico e onestà storica per riconoscere che il diritto alla preghiera deve essere garantito a tutti. Senza che ciò venga automaticamente letto come una provocazione.

In fondo, se un giorno sarà mai possibile una pace duratura a Gerusalemme, essa potrà nascere solo dal reciproco riconoscimento dei legami profondi – religiosi, identitari, spirituali – che ogni popolo ha con quella città. Continuare a negare agli ebrei ciò che si concede ad altri non rafforza la pace, ma la nega alla radice.


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