Mohammed Dahlan, conosciuto anche come «il fantasma di Gaza», torna a far parlare di sé ogni volta che il potere palestinese scricchiola. È l’avversario più determinato di Abu Mazen, il presidente senza consenso che da vent’anni guida un’Autorità Palestinese ridotta a un guscio vuoto. Da tempo in esilio negli Emirati Arabi Uniti, Dahlan osserva da lontano le macerie politiche e fisiche del suo popolo, e sono in molti a sostenere che stia preparando un rientro calcolato.
Nato nel 1961 nel campo profughi di Khan Younis, figlio di rifugiati del 1948, Dahlan ha conosciuto la prigione israeliana da giovane militante di Fatah. Negli anni Ottanta fu arrestato più volte; imparò l’ebraico e studiò da vicino il funzionamento dell’apparato di sicurezza del nemico. Dopo gli accordi di Oslo rientrò a Gaza come capo della Preventive Security Force, una sorta di polizia parallela creata per controllare l’opposizione e garantire ad Arafat un dominio stabile sulla Striscia. Per alcuni fu un uomo d’ordine, per altri un torturatore con licenza politica. All’epoca si diceva che Gaza fosse diventata «Dahlanistan».
L’ascesa fu rapida quanto la caduta. Dopo la morte di Arafat e l’ascesa di Abu Mazen, Dahlan fu progressivamente marginalizzato, quindi espulso da Fatah nel 2011 con accuse di corruzione e appropriazione indebita. Riparò ad Abu Dhabi, dove trovò la protezione del principe ereditario Mohammed bin Zayed, oggi presidente degli Emirati. Da allora è diventato un consulente influente, abile nel muoversi tra politica, intelligence e affari. A differenza di molti leader palestinesi, interloquisce con scioltezza in inglese ed ebraico e conosce bene i meccanismi del potere regionale.
Il suo nome torna ciclicamente nei momenti di crisi. Dopo il 7 ottobre e la devastazione di Gaza, fonti israeliane e occidentali hanno ipotizzato un suo ruolo nella fase postbellica: una figura in grado di garantire ordine, evitare il ritorno di Hamas e ricucire i rapporti con i paesi arabi. Israele non lo ama ma lo considera pragmatico; gli Emirati lo sostengono; l’Egitto lo tollera. È, per molti versi, l’unico palestinese che intrattiene contatti diretti con tutti questi attori senza dover rendere conto a nessuno.
Dahlan si è sempre descritto come un patriota realistico. Ha attaccato la corruzione dell’Autorità Palestinese e la sua incapacità di rappresentare davvero i palestinesi, ma rifiuta l’etichetta di “uomo di Israele”. In un’intervista al Time ha definito Benjamin Netanyahu «il più grande bugiardo della storia israeliana», accusando Abu Mazen di «aver trasformato Ramallah in una corte di pensionati e privilegiati». Per lui la priorità non è più la retorica dei negoziati, ma la ricostruzione di un sistema politico credibile e funzionante.
Eppure il suo ritorno non è affatto scontato. A Ramallah la vecchia guardia di Fatah non lo perdona. In Cisgiordania il suo consenso è limitato e, nei sondaggi, resta dietro a figure come Marwan Barghouti. A Gaza, dove un tempo era onnipotente, Hamas lo considera ancora un nemico. La lunga assenza dai territori palestinesi pesa più di qualsiasi alleanza esterna, e l’ombra delle accuse di corruzione e abuso resta una macchia che non si cancella.
I suoi sostenitori ritengono che, se mai ci sarà un dopo-Abu Mazen, Dahlan sia l’unico con relazioni internazionali sufficienti per ricostruire l’Autorità Palestinese e attrarre fondi. I detrattori vedono in lui l’ennesimo “uomo forte”, destinato a riprodurre il medesimo autoritarismo con un nuovo sponsor. In mezzo c’è un popolo stanco, che non vota da quasi vent’anni e che di nuovi padri-padroni non sa più che farsene.
Mohammed Dahlan vive di ambiguità: patriota per alcuni, opportunista per altri, sopravvissuto per tutti. Ma finché Abu Mazen resterà inchiodato alla sedia e il sistema palestinese continuerà a marcire nella paralisi, il suo nome tornerà. Con lui, la domanda: serve davvero un volto nuovo o basta un vecchio volto con amici nuovi?
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