Per decenni, nelle neuroscienze ha dominato un’idea tanto semplice quanto rassicurante: il cervello doveva essere protetto dal sistema immunitario. L’infiammazione era il nemico, le cellule immunitarie una minaccia da tenere lontana dal sistema nervoso centrale. Su questo presupposto si sono costruite terapie, modelli sperimentali, intere carriere. Michal Schwartz, professoressa al Weizmann Institute of Science, ha avuto il merito – e il coraggio – di mettere in discussione questo dogma, pagando inizialmente un prezzo scientifico non indifferente, prima di vedere le sue intuizioni affermarsi come uno dei filoni più promettenti nella ricerca sull’Alzheimer.
Il punto di partenza del lavoro di Schwartz è controintuitivo: il cervello non è un organo immunologicamente isolato, ma mantiene un dialogo costante con il sistema immunitario periferico. In condizioni fisiologiche, alcune cellule immunitarie, in particolare specifiche popolazioni di linfociti T, svolgono una funzione di supporto alla salute neuronale, favorendo i processi di riparazione, la rimozione dei detriti cellulari e il mantenimento dell’equilibrio tissutale. Il problema, dunque, non è l’immunità in sé, ma il suo malfunzionamento.
Applicando questa chiave di lettura alle malattie neurodegenerative, Schwartz ha mostrato che nell’Alzheimer il sistema immunitario non è iperattivo, come si è a lungo sostenuto, ma piuttosto inefficiente e disorganizzato. Le cellule che dovrebbero aiutare il cervello a liberarsi delle placche di beta-amiloide e dei prodotti tossici dell’infiammazione non riescono a svolgere il loro compito. Il risultato è un accumulo progressivo di danni che accelera il declino cognitivo.
Da qui nasce un vero cambio di paradigma terapeutico. Invece di spegnere indiscriminatamente l’infiammazione, l’approccio sviluppato dal gruppo di Schwartz mira a rieducare il sistema immunitario, rafforzando le risposte protettive e correggendo quelle disfunzionali. Nei modelli animali di Alzheimer, questa strategia ha prodotto risultati significativi: riduzione delle placche amiloidi, miglioramento delle funzioni cognitive, rallentamento della progressione della malattia.
Uno degli aspetti più innovativi di questa ricerca riguarda il ruolo del sistema linfatico meningeo, una rete di drenaggio scoperta solo di recente che collega il cervello al resto del corpo. Schwartz è stata tra le prime a dimostrare che il malfunzionamento di questo sistema contribuisce in modo rilevante alla patologia neurodegenerativa e che il suo ripristino può migliorare l’eliminazione delle sostanze tossiche dal cervello. Ancora una volta, non distruzione, ma riequilibrio.
Il lavoro del laboratorio di Schwartz ha avuto anche un impatto diretto sulla ricerca clinica. Dalle sue scoperte sono nati approcci terapeutici sperimentali basati sull’immunoterapia, alcuni dei quali sono entrati in fasi avanzate di sviluppo preclinico e clinico. Non promesse miracolistiche, ma un cambio di strategia fondato su dati solidi, replicati e progressivamente integrati da altri gruppi di ricerca a livello internazionale.
Come spesso accade nelle svolte scientifiche autentiche, il percorso non è stato lineare. Le prime pubblicazioni di Schwartz hanno incontrato scetticismo, quando non aperta ostilità, perché mettevano in crisi un consenso consolidato. Oggi molte di quelle intuizioni sono diventate patrimonio comune delle neuroscienze e hanno contribuito a spostare l’attenzione dalla semplice soppressione dei sintomi a una comprensione più profonda dei meccanismi della malattia.
In un campo segnato da fallimenti clamorosi e aspettative deluse, il lavoro di Michal Schwartz non offre scorciatoie, ma una prospettiva nuova e più realistica: non trattare il cervello malato come un campo di battaglia, ma aiutarlo a recuperare alleati che aveva perso. Una differenza concettuale che, nel lungo periodo, potrebbe rivelarsi decisiva.
Michal Schwartz, la scienziata che ha cambiato il paradigma dell’Alzheimer
Michal Schwartz, la scienziata che ha cambiato il paradigma dell’Alzheimer

