L’attentato antisemita di Bondi Beach, a Sydney, ha lasciato dietro di sé una scia di sangue che con il passare delle ore si è rivelata ancora più grave di quanto inizialmente comunicato. Il bilancio aggiornato parla di almeno quindici civili uccisi e di oltre quaranta feriti, alcuni dei quali in condizioni critiche. Un attacco mirato, avvenuto durante una celebrazione ebraica, che ha colpito famiglie, bambini, anziani, trasformando una spiaggia simbolo dell’Australia in uno dei luoghi più cupi della storia recente del paese.
Le reazioni internazionali non si sono fatte attendere. Ma a sorprendere non è stata la solidarietà,spesso di facciata, proveniente dall’Occidente, bensì una serie di prese di posizione arrivate dal mondo arabo e musulmano, tradizionalmente reticente quando la violenza antisemita colpisce fuori dal contesto mediorientale. Questa volta, invece, alcune capitali hanno scelto parole nette, senza i consueti equilibrismi.
L’Iran ha condannato l’attacco parlando esplicitamente di terrorismo e ribadendo la necessità di opporvisi ovunque si manifesti. Una dichiarazione che non cancella l’evidente contraddizione di un regime che sostiene gruppi armati responsabili di stragi contro civili, ma che segnala una consapevolezza: l’antisemitismo violento in Occidente non può più essere ignorato o minimizzato senza costi politici. E ai costi politici Teheran, con il cinismo criminale che gli è proprio, ci tiene molto.
Dal Libano è arrivata una condanna accompagnata da un parallelismo più ampio. Il primo ministro Joseph Aoun ha affermato che gli attacchi contro civili innocenti sono inaccettabili ovunque avvengano, richiamando anche i conflitti in corso in Medio Oriente. Accostamento più che discutibile, ma che riflette il tentativo di riaffermare un principio universale in un paese attraversato da profonde divisioni interne e dalla presenza dominante di Hezbollah.
Il Qatar ha adottato un linguaggio istituzionale, ribadendo la propria opposizione alla violenza e al terrorismo in tutte le circostanze e esprimendo cordoglio alle famiglie delle vittime. Anche qui, la dichiarazione va letta sullo sfondo di una politica estera ambigua, che alterna mediazione diplomatica e rapporti con attori estremisti. Ma resta il fatto che l’attacco di Sydney è stato riconosciuto per ciò che è: un atto di odio contro civili ebrei.
Ancora più significativa la presa di posizione del grande mufti d’Australia e Nuova Zelanda, che ha condannato l’attentato, sottolineando che colpire una persona per la sua religione o nazionalità è un crimine e affermando che non esiste alcuna differenza di valore tra una vita musulmana e una vita ebraica. Parole raramente pronunciate con tanta chiarezza in un contesto mediatico globale saturo di doppi standard. Non è detto che segnalino un cambiamento ma il fatto che siano state dette è già di per sé un dato da non sottovalutare.
A fare da contrappunto, il silenzio di altri attori regionali. La Siria non ha rilasciato alcuna dichiarazione. Un’assenza che pesa, perché oggi il silenzio non è neutro: è una scelta.
Queste reazioni non segnano una svolta epocale né assolvono anni di ambiguità e ostilità. Ma indicano una crepa, forse ancora sottile, nel riflesso automatico che ha troppo spesso accompagnato la violenza antisemita: relativizzare, spostare il discorso, guardare altrove. A Bondi Beach non è stato colpito uno Stato, ma esseri umani. E qualcuno, nel mondo arabo e musulmano, ha deciso di dirlo. Vedremo nei prossimi mesi se questo sortirà qualche effetto reale o se le parole resteranno scritte nel vuoto fino a sciogliersi e scomparire.
Australia. L’antisemitismo e le scoperte in ritardo
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