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Mano nella mano e occhi bendati: il giorno in cui Sánchez ha scelto Abbas

Rosa Davanzo

Tempo di Lettura: 3 min
Mano nella mano e occhi bendati: il giorno in cui Sánchez ha scelto Abbas

La foto scattata alla Moncloa ha il sapore dolciastro delle cartoline costruite per suggerire un’armonia che non esiste. Pedro Sánchez e Mahmoud Abbas, mano nella mano come due antichi compagni di lotta, passeggiano nei corridoi del potere spagnolo mentre fuori, in Europa, cresce l’imbarazzo. Il premier spagnolo, ormai punto di riferimento del fronte più ostile a Israele, ha colto l’occasione della visita ufficiale del presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese per rilanciare la sua accusa preferita: Israele starebbe commettendo un genocidio a Gaza. Parole pronunciate con una sicurezza che stride con la fragilità politica di un leader che, evocando tragedie altrui, sembra aver perso di vista la realtà.

Alla conferenza stampa congiunta, Sánchez ha parlato di responsabilità future, tribunali, giustizia da esigere «prima o poi». Un linguaggio escatologico che sorprende soprattutto per la sua leggerezza, considerando che al suo fianco aveva Abbas: un leader che governa senza elezioni da quasi vent’anni, sotto l’ombra di una corruzione sistemica e con un consenso ai minimi storici persino tra i suoi stessi cittadini. Eppure Sánchez sceglie proprio lui come partner simbolico di questa crociata morale, arrivando a definire la Palestina «un Paese fratello». Fratello di cosa, resta un mistero.

La coreografia è proseguita sui social. Il premier ha pubblicato una foto in cui cammina tenendosi per mano con Abbas, accompagnandola a una didascalia da fiaba diplomatica: la Spagna «camminerà sempre mano nella mano con la Palestina». Nessun riferimento alle responsabilità dell’Autorità Palestinese nel crollo politico e amministrativo di Gaza, nessuna parola su Hamas, nessuna domanda su come si possa costruire una pace “giusta e duratura” ignorando gli elementi basilari della sicurezza israeliana.

A Gerusalemme, la risposta è arrivata rapida e gelida. Gideon Sa’ar, ministro degli Esteri, ha replicato senza giri di parole: «Non parlare in nome del futuro. Non è tuo». Un avvertimento asciutto, quasi una scrollata di spalle verso una Spagna che appare più impegnata a coltivare simboli che a guardare i fatti.

Sánchez ha insistito sul cessate il fuoco, sostenendo che l’accordo dev’essere «reale» e non «vuoto». Ma si è ben guardato dal riconoscere chi, quel vuoto, continua a riempirlo di armi, tunnel e minacce. Anche sulla governance futura della Striscia, il premier ha ribadito pieno appoggio a un’Autorità Palestinese che, da sola, fatica a governare persino le strade di Ramallah. Una visione ottimistica, certo, ma soprattutto astratta.

La giornata di Madrid si chiude così: una foto costruita, un’accusa roboante, un’alleanza immaginaria. E un dubbio sempre più evidente: se la politica europea vuole davvero essere adulta, dovrà prima o poi smettere di confondere la diplomazia con il sentimentalismo. Perché camminare mano nella mano è facile. Molto più difficile è guardare dove si sta andando.


Mano nella mano e occhi bendati: il giorno in cui Sánchez ha scelto Abbas
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