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L’Unione Europea Antisemita – Ungheria, la minoranza dimenticata

Daniele Scalise

Tempo di Lettura: 4 min
L’Unione Europea Antisemita – Ungheria, la minoranza dimenticata

All’inizio di giugno, nel VII distretto di Budapest, a pochi passi dalla Grande Sinagoga, sui muri e sulle panchine compaiono scritte brutali: «Zsidók haza!» («Ebrei a casa!»), «Zsionisták kifelé!» («Fuori i sionisti!»). Una donna anziana si ferma, fissando in silenzio quelle oscenità che la riportano indietro nel tempo. In Marinka Carell, sopravvissuta alla Shoah, non prevale lo stupore, ma una sconsolata rassegnazione. Forse per via dei suoi 92 anni. Tutto ciò che amava e conosceva da bambina è andato in fumo, ma non immaginava che quell’incendio che credeva spento per sempre sarebbe tornato a bruciare.

In Ungheria, vivono circa 47.200 ebrei, concentrati soprattutto a Budapest. Rappresentano appena lo 0,5% della popolazione. Una comunità minuscola ma vitale, con una ventina di sinagoghe attive, scuole, musei, attività culturali. L’ebraismo ungherese, pur ridotto nei numeri, non ha mai smesso di generare vita e pensiero. Tra le figure più stimate spicca il rabbino Slomó Köves, quarantaseienne, fondatore dell’EMIH (la Comunità ebraica Chabad), da anni impegnato contro l’antisemitismo, in dialogo continuo con ONG e istituzioni, sia nazionali che europee.

Secondo un’indagine dell’Agenzia dell’Unione Europea per i Diritti Fondamentali (FRA), pubblicata a metà 2025, il 65% degli ebrei ungheresi considera l’antisemitismo un problema quotidiano e concreto. Una percentuale inferiore alla media europea (84%), ma che resta comunque allarmante.

Negli ultimi mesi gli episodi si sono moltiplicati: graffiti, insulti, minacce, attacchi verbali online. Due i casi più gravi: a novembre 2024, un gruppo pro Palestina irrompe in un evento culturale a Debrecen organizzato dalla comunità ebraica urlando «Israele assassino», costringendo la delegazione guidata da Köves ad abbandonare l’edificio. A febbraio 2025, alcune sinagoghe periferiche vengono imbrattate con simboli di Hamas e scritte inneggianti all’intifada.

Sindacati, ONG progressiste e la stessa EMIH promuovono appelli contro l’odio, progetti educativi, iniziative di dialogo interreligioso. Ma le comunità ebraiche denunciano una tendenza crescente: la critica a Israele si fa sempre più sfrontata e parla la lingua dell’antisionismo. Lo si nota chiaramente in molte manifestazioni studentesche, dove la violenza di Hamas viene celebrata come «resistenza». È un cortocircuito pericoloso, non solo perché dal grido al gesto il passo è breve, ma perché si legittima un’idea malata: quella che dipinge i terroristi come eroi, valorosi partigiani portatori di un ideale. È il teatro dell’assurdo, dove la platea tace, balbetta o acconsente.

Sul piano istituzionale il governo ungherese prende posizione. Qualche mese fa, il ministro per gli Affari europei János Bóka ha annunciato una «politica di tolleranza zero contro l’antisemitismo, anche quello travestito da antisionismo». Orbán, da parte sua, finanzia memoriali, scuole ebraiche, eventi internazionali. Peccato che si resti alle promesse: mancano programmi obbligatori nelle scuole, corsi di formazione per insegnanti, linee guida per le forze dell’ordine. Manca un centro di sorveglianza sull’odio online. Manca tutto: dati, strategie, coordinamento.

Il partito Jobbik, con un passato neofascista ingombrante, oggi si presenta con la camicia pulita. Ma tra i suoi eletti circolano figure che non nascondono la nostalgia per un’Ungheria etnicamente «pura». Anche il partito Fidesz del premier Orbán non si fa scrupolo a riabilitare personaggi come Miklós Horthy, l’ex reggente autoritario alleato dei nazisti.

Servono atti concreti: formare insegnanti, poliziotti, magistrati. Introdurre l’educazione alla Shoah nei programmi scolastici. Spiegare cos’è davvero il Sionismo, come è nato, perché esiste. Regolamentare i social network. Finanziare il dialogo interreligioso. Raccogliere dati. Coordinare gli interventi. Prevenire. Perché quelle scritte e quelle minacce sono rivolte a una comunità che vive, studia, lavora, prega. Una comunità che non chiede privilegi, ma rispetto, protezione, attenzione.

L’Ungheria, terra di orrore e rinascita, oggi è a un bivio. O si impegna davvero, nelle scuole, nelle piazze, nei tribunali. Oppure tradisce se stessa. E se persino Roma tace di fronte a un Paese che «difende gli ebrei» solo a parole, c’è qualcosa che non va. Perché la difesa dei principi di libertà non funziona a corrente alternata. E la memoria non è un trofeo da esibire nelle grandi occasioni.


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