Federica Mogherini merita tutte le garanzie del caso perché chi è garantista lo è sempre, soprattutto quando si tratta degli avversari. L’innocenza fino all’ultimo grado di giudizio non è un optional: è un pilastro civile, e su quello non si transige.
Detto questo, c’è un punto che nessun tribunale potrà mai ribaltare: ciò che Mogherini ha fatto – e detto – quando era ministro degli Esteri e poi Alto rappresentante dell’Unione Europea. Lì non ci sono gradi di giudizio; ci sono i fatti. E i fatti, purtroppo, parlano chiaro.
Quando andò in Israele, la parola “Israele” non le attraversò quasi mai le labbra. Preferì un’espressione che dice tutto del suo sguardo: “Terra impregnata di sangue”. Una formula cupa, accusatoria, un modo chic e radicale per sostituire la storia con un’immagine gotica. Chi conosce un minimo la regione sa che non si trattava di un lapsus ma di una postura. La sua ostilità verso lo Stato ebraico non è mai stata un mistero, né lo è stata la sua ostentata compiacenza verso l’Iran degli ayatollah, corteggiato come se fosse una potenza moderata e non uno Stato teocratico che sogna l’annientamento di Israele e finanzia milizie in Libano e in Siria.
È questo che pesa nel giudizio su Mogherini. E peserà sempre. Le eventuali responsabilità penali che le vengono contestate oggi non ci riguardano: ci sono procure e tribunali per stabilire che cosa abbia fatto o non fatto e noi, grazie a dio, di mestiere facciamo altro e non certo i magistrati.
Ma il suo operato politico resta scolpito. È lì la firma con cui ha contribuito a spingere l’Europa verso l’illusione che con Teheran si potesse “dialogare”. È lì quella reticenza metodica a pronunciare il nome “Israele”, come se fosse una parolaccia o un inconveniente diplomatico. È lì la sua geometrica indifferenza verso le preoccupazioni di chi da Gerusalemme la osservava.
La presunzione d’innocenza non si tocca. La memoria nemmeno.
L’unica sentenza già scritta
L’unica sentenza già scritta
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