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L’oscenità del paragone: Anna Frank non c’entra niente.

Tiziana Della Rocca

Tempo di Lettura: 3 min
L’oscenità del paragone: Anna Frank non c’entra niente.

Molti hanno commentato il post su Facebook del giornalista di Fanpage, Saverio Tommasi, per il parallelo azzardato tra una famiglia sfrattata a Bologna e la famiglia di Anna Frank. Secondo lui, chi oggi fa rispettare la legge allontanando chi occupa abusivamente un appartamento sarebbe sullo stesso piano di chi, a suo tempo, avrebbe denunciato Anna Frank e i suoi cari: nascosti in una soffitta, senza pagare l’affitto. L’elemento essenziale viene però travolto: la famiglia di Anna Frank non era “abusiva”, era braccata. Si nascondeva per sfuggire alle persecuzioni naziste. Non parliamo di un inadempimento contrattuale, ma di sopravvivenza di fronte all’orrore. Quel post non è solo fuori luogo: è moralmente distorto, perché equipara una vicenda di occupazione a una delle tragedie simbolo della Shoah.

Tirare in ballo le persecuzioni naziste — che costarono la vita a sei milioni di ebrei — in un contesto simile tradisce la misura delle cose: è irrispettoso, sproporzionato, strumentale. Dal 7 ottobre 2023 questo abuso si è moltiplicato: la Shoah viene piegata a slogan e la parola “genocidio” è agitata come una clava semantica. Il risultato è devastante: si svuota il significato storico dei termini e, insieme, si indebolisce il tabù morale che protegge le vite degli ebrei nella coscienza pubblica.

Un episodio, tra i tanti. Il 7 ottobre di quest’anno ho pubblicato un post di commemorazione con le immagini del Nova Festival: ragazzi che ballano poco prima del massacro di Hamas. Trecentosettantotto giovani uccisi, stupri di massa, feriti, rapiti. Il video ha circolato molto. Un uomo, non tra i miei contatti, che nella biografia si definisce “console”, ha commentato con l’emoticon della risata. L’ho interpellato in privato: perché ridere di una carneficina di innocenti? La risposta è stata che quel post “difende lo Stato criminale d’Israele” e che “il genocidio a Gaza è più grave del 7 ottobre”; dunque chi commemora quella data alimenta la propaganda israeliana. Nessuna parola sul perché della risata. L’argomento del presunto genocidio è stato usato per giustificare il ghigno davanti alla morte di ragazzi inermi.

Anche se costui credesse davvero, in buona fede, che a Gaza sia in corso un genocidio, questo non giustificherebbe mai il riso davanti al massacro di civili. Sarebbe come se, di fronte ai morti palestinesi di un bombardamento, qualcuno si mettesse a ridere rispondendo che «tanto il 7 ottobre Hamas ha massacrato civili». Che cosa ci sarebbe da ridere? Nulla. Eppure accade, perché l’abuso della parola “genocidio”, ripetuto da giornalisti, politici e perfino storici, ha legittimato un clima in cui gli ebrei possono essere di nuovo disumanizzati: al punto da rendere possibile — e per alcuni persino accettabile — ridere quando vengono trucidati in massa.

Le parole non sono neutre: costruiscono la percezione morale del mondo. Paragonare una famiglia occupante a Anna Frank è un tradimento della storia e della pietà. Svuotare “genocidio” del suo significato è un attentato alla memoria e un lasciapassare alla crudeltà. Chi maneggia questi termini ha una responsabilità: restituire alla lingua la sua verità, perché dalla lingua passa il confine che separa l’umano dalla barbarie.


L’oscenità del paragone: Anna Frank non c’entra niente.
L’oscenità del paragone: Anna Frank non c’entra niente.