Trentadue. Un numero che in Israele fa impressione perché è quello dei casi di cittadini israeliani reclutati dall’Iran dall’inizio della guerra del 7 ottobre. L’ultimo nome della lista è quello di Rafael Reuveni, 21 anni, originario di Beer Sheva, arrestato nell’ottobre scorso e oggi formalmente incriminato dal tribunale distrettuale della città nel Negev. Secondo il comunicato congiunto diffuso dal servizio di sicurezza interno Shin Bet – il servizio di sicurezza interno israeliano, responsabile dell’antiterrorismo e della controspionaggio nel Paese – e dalla polizia, il giovane avrebbe svolto “missioni operative” per conto dell’intelligence iraniana, con piena consapevolezza che i suoi atti potevano danneggiare la sicurezza nazionale.
La storia, però, non è solo quella di un ragazzo vulnerabile finito nel mirino degli agenti di Teheran: è l’ennesimo capitolo di una strategia precisa dell’Iran, che da mesi tenta di sfruttare la pressione psicologica della guerra per arruolare israeliani disposti – per denaro, ingenuità o convinzione ideologica – a compiti di sorveglianza, consegna di materiali e verifica di obiettivi sensibili. Le indagini mostrano che Reuveni avrebbe comunicato direttamente con i suoi referenti iraniani nelle settimane precedenti all’arresto, inviando fotografie scattate in punti specifici di Beer Sheva, recuperando una scheda SIM lasciata in un punto di scambio segreto, nascondendo per loro conto un telefono e persino spostando una pistola da una cache all’altra. Per queste attività avrebbe ricevuto somme di denaro via trasferimenti digitali, un metodo utilizzato di frequente dall’intelligence iraniana per ridurre le tracce.
Fonti di sicurezza israeliane, negli ultimi mesi, avevano già messo in guardia contro il “nuovo fronte interno” aperto dall’Iran: non solo cyberattacchi e droni lanciati da proxy regionali, ma anche reclutamenti diretti di israeliani fragili o isolati. In più di un caso – emerso a Haifa, Tel Aviv e nel sud del Paese – i servizi iraniani avevano agganciato cittadini tramite social network, talvolta fingendosi organizzazioni umanitarie, attivisti pro-palestinesi o persino giovani donne interessate a stabilire un contatto personale. La dinamica ricorda da vicino i metodi del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica (IRGC), che da anni combina propaganda, manipolazione sentimentale e micro-pagamenti per ottenere informazioni locali.
In questo quadro, la vicenda Reuveni non appare come un episodio isolato ma come un tassello coerente di una campagna. Perché trentadue casi in poco più di dodici mesi indicano un salto di qualità: Teheran non punta soltanto a colpire Israele attraverso Hezbollah o le milizie sciite in Siria e Iraq; cerca crepe interne, piccole falle attraverso cui ottenere accesso a territori, infrastrutture, routine quotidiane. È una strategia a basso costo e ad alto rendimento: ogni recluta israeliana, anche se inesperta o maldestra, può offrire mappe fotografiche, percorsi abituali, luoghi non monitorati. E proprio per questo lo Shin Bet ha rinnovato il suo avvertimento: qualunque contatto online con entità sconosciute che chiedano foto, informazioni logistiche o semplici “favori” può essere parte di un’operazione ostile.
Il caso Reuveni, dunque, non è solo il trentaduesimo nella statistica: è il segnale di una pressione costante che l’Iran esercita sul Paese, non solo ai suoi confini ma dentro le sue città, dentro le sue famiglie, dentro il suo tessuto civile. La guerra oggi passa anche da qui: dal tentativo di infiltrare la normalità israeliana con micro-spie, piccoli incarichi, trasferimenti di poche centinaia di euro. È un fronte silenzioso, ma tremendamente concreto. E non accenna a chiudersi.
L’ombra di Teheran: arrestato a Beer Sheva spia iraniana
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