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Lo “Staticidio” di Israele e la guerra dell’informazione

Sergio Della Pergola

Tempo di Lettura: 5 min
Lo “Staticidio” di Israele e la guerra dell’informazione

Il 7 ottobre 2023 è stato tentato uno Staticidio nei confronti di Israele. Il neologismo racchiude tre elementi: un piano strategico-ideologico, un piano operativo dettagliato e un’ampia partecipazione popolare. Gli obiettivi erano due: l’eliminazione fisica della popolazione e la distruzione delle strutture politiche e logistiche dello Stato ebraico. Quel tentativo ha avuto esiti iniziali devastanti, ma è stato sventato – non del tutto – a prezzo di gravissime perdite militari e civili, con un eroismo diffuso che ha evitato la catastrofe totale. Se le diverse forze nemiche avessero coordinato meglio il loro sforzo, lo Staticidio sarebbe riuscito. Non è accaduto, forse per divergenze interne, o forse per un miracolo.

Il prezzo pagato da Israele è stato altissimo: 2.000 morti, metà dei quali civili; 30.000 feriti, migliaia dei quali mutilati nel corpo e nell’anima; 251 deportati, massacrati uno a uno. Oltre 37.500 missili lanciati contro Israele, ciascuno potenzialmente capace di causare un centinaio di vittime. Se si parla di “proporzionalità”, l’intento era quello di sterminare 3,7 milioni di persone. La difesa aerea e la resilienza del Paese hanno limitato i danni, ma la guerra per la sopravvivenza di Israele non è conclusa.

Oggi la battaglia si gioca su tre fronti: quello militare, quello politico-mediatico e quello identitario. Sul primo, la cauta fiducia nelle iniziative di pace del presidente Trump si accompagna alla consapevolezza che la sicurezza d’Israele non può essere delegata. Sul secondo fronte, quello dell’informazione, Israele e il popolo ebraico hanno finora perso la battaglia del soft power: la capacità di costruire consenso e comprensione.

Negli ultimi due anni, e in particolare dopo il 7 ottobre, si è scatenata una spirale di ostilità contro Israele e contro gli ebrei, una violenza verbale e fisica senza precedenti dalla fine della Seconda guerra mondiale. I toni ricordano quelli dei regimi nazi-fascisti degli anni Trenta.

Con un gruppo di collaboratrici, abbiamo analizzato i contenuti della stampa italiana tra il 19 settembre e il 9 ottobre 2025. Undici quotidiani nazionali sono stati esaminati per misurare l’attenzione e l’impostazione dei messaggi relativi al conflitto Gaza-Israele. Il risultato è impressionante: una media di 7-10 pagine al giorno, in certi casi fino a 20, un livello di copertura patologico, quattro volte superiore a quello dedicato alla guerra Russia-Ucraina.

Le scelte editoriali reagiscono agli eventi con una visibilità crescente, ma secondo un orientamento ideologico costante: una mobilitazione anti-israeliana diffusa. Il Fatto Quotidiano e il manifesto guidano la linea negazionista; La Stampa si distingue per toni eccessivi e caricaturali; Repubblica e Corriere della Sera seguono a ruota, mentre solo Il Riformista e Il Foglio mantengono una posizione di equilibrio e difesa della verità dei fatti.

Lo stesso vale per le reti televisive: Canale 9 e La7 primeggiano in ostilità, seguite da Rai News 24 e Rai 3. Sulle onde radio, la Rai appare schierata. I media tradizionali, pur nell’epoca digitale, restano lo specchio di una società, e oggi questo specchio restituisce un volto deformato.

Un segno evidente della manipolazione è l’abitudine di definire il governo israeliano come “Tel Aviv”. È una rimozione forzata della realtà, poiché i centri istituzionali – Parlamento, Corte Suprema, Presidenza, Museo Israel, Memoriale della Shoah – sono tutti a Gerusalemme. Un errore deliberato, sintomo di una campagna ideologica che nega l’identità stessa di Israele.

Un’altra distorsione riguarda le statistiche dei morti a Gaza. Nessuno nega la tragedia, ma le cifre fornite dal ministero della Sanità di Hamas, unica fonte disponibile, sono prive di fondamento tecnico: dichiarano vittime più volte, non distinguono combattenti da civili, considerano “bambino” chiunque abbia meno di 18 anni, anche se armato. La realtà, verificata con criteri empirici, indica decine di migliaia di numeri gonfiati.

In Italia e altrove, il conflitto viene usato anche per scopi politici interni: serve a deviare l’attenzione dell’opinione pubblica da problemi reali, a mobilitare su un nemico comodo. Così Israele diventa il capro espiatorio universale.

La stampa italiana denuncia un profondo degrado del giornalismo: effetto gregge, perdita della ragione, crollo di civiltà. Università ridotte a centri di militanza, scuole trasformate in palestre di ideologia, una CGIL tornata al linguaggio del rancore, persino lo sport usato come pretesto per l’esclusione. L’uccisione di due ebrei davanti alla sinagoga di Manchester, il giorno di Kippùr, è l’ennesimo segnale di una osmosi tra propaganda e violenza reale.

A sessant’anni dalla Nostra Aetate, il dialogo ebraico-cristiano appare in coma. E con esso, la memoria della Shoah rischia di essere svuotata di significato.

La ricerca conferma che l’antisemitismo contemporaneo, o meglio l’anti-ebreismo, si fonda su tre negazioni:

del diritto individuale all’uguaglianza civile e politica;

del diritto collettivo alla memoria della Shoah;

del diritto nazionale all’autodeterminazione e alla sovranità in Israele.

Negare uno solo di questi tre assi significa negare l’esistenza stessa del popolo ebraico. La profonda interconnessione tra Shoah, Israele e identità ebraica rende insostenibile ogni tentativo di escludere Israele dal discorso sull’antisemitismo.

Gli ebrei della diaspora, e in particolare quelli italiani, hanno non solo il diritto ma il dovere morale di pretendere un governo israeliano più rappresentativo e responsabile. Perché il futuro di Israele, come quello dell’Europa, dipende dalla capacità di tornare alla vita, alla verità e alla libertà.

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