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L’Iran e l’ombra lunga del terrorismo

Daniele Scalise

Tempo di Lettura: 3 min
L’Iran e l’ombra lunga del terrorismo


Da Teheran a Berlino, passando per Atene e Sydney, la geografia del terrore iraniano si scopre più ampia e più precisa di quanto molti fingessero di ignorare. Non è più un sospetto né una voce d’intelligence: il Mossad ha messo nomi, ruoli e indirizzi a una macchina che da anni tenta di colpire obiettivi israeliani ed ebraici nel mondo, con un’ostinazione burocratica e un cinismo industriale.

A guidarla, *Sardar Amar, comandante dei Guardiani della Rivoluzione, **Divisione 11.000: un numero che sembra uscito da un manuale di logistica e invece serve a camuffare un apparato di morte. Agiva sotto la **Forza Quds* di Esmail Qaani, lo stesso reparto che gestisce il “franchising” del terrorismo iraniano da Beirut a Sana’a. Amar coordinava cellule in Europa e in Oceania, reclutava stranieri, criminali comuni, mercenari occasionali. Tutti intercambiabili, tutti sacrificabili.

Australia, Germania, Grecia: tre fallimenti consecutivi, decine di arresti, ambasciatori espulsi e relazioni diplomatiche compromesse. È il prezzo che Teheran paga per la propria arroganza — e per l’illusione di poter restare invisibile. “Operazioni sotto il radar”, le chiamano. Ma quando il radar è israeliano, l’invisibilità diventa un miraggio.

La rivelazione del Mossad fa la radiografia a un metodo che dice che l’Iran non attacca solo Israele, ma l’idea stessa di sicurezza occidentale. Usa il terrorismo come leva politica e alibi ideologico, mantenendo le mani pulite dietro il paravento della “resistenza”. Ogni volta che un ordigno esplode o un piano viene sventato, Teheran alza le spalle e parla di “azioni spontanee”. Si tratta di una menzogna da manuale, ripetuta con disciplina burocratica.

Il vero disastro per la Repubblica islamica non sono i piani falliti, ma il *disvelamento* dei suoi piani. Ora Teheran non può più fingere di non sapere, né di non essere al comando dei tentativi criminali da essa stessa organizzati. È così venuta a galla una ragnatela con tanto di nomi, gradi e catene di comando. L’imbarazzo diplomatico, poi, fa intravedere come e quanto il regime degli ayatollah abbia sostituito la politica con il sabotaggio. Una domanda ora è più che lecita: è ancora possibile fingere che l’Iran sia un interlocutore “razionale”, un attore da reintegrare nel consesso internazionale? Naturalmente la cecità di molte cancellerie occidentali non è dovuta a un danno biologico ma a una consolidata e viziosa pratica politica. La realtà è che i Guardiani della Rivoluzione non sono un corpo militare ma la continuazione dell’ideologia con altri mezzi, e spesso con gli stessi morti.

C’è chi, in Europa, continuerà a cercare sfumature, distinguo, e ci racconterà che ci sono ponti da ricostruire. Intanto il tanto deprecato (e, grazie al cielo, temuto) Mossad — con la dovuta discrezione e senza inutili conferenze stampa — salva vite mentre l’Iran, che aveva costruito una propria strategia per colpire nell’ombra, proprio di quella medesima ombra resta prigioniero.


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