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L’impero mediatico dei Fratelli Musulmani

Paolo Montesi

Tempo di Lettura: 3 min
L’impero mediatico dei Fratelli Musulmani

Ci sono milioni di schermi, dal Cairo a Casablanca, che ogni giorno trasmettono lo stesso messaggio: i Fratelli Musulmani sono vittime dei regimi, i governi laici tradiscono l’Islam, Hamas è resistenza. Cambiano le lingue e i canali, ma la voce resta una.

La Fratellanza, nata in Egitto nel 1928 per opera di Hassan al-Banna, ha capito prima di molti che il potere non passa solo per le urne o le armi, ma attraverso il racconto collettivo, la costruzione di un immaginario condiviso. Dalla distribuzione di opuscoli negli anni Trenta alle riviste degli anni Cinquanta, fino ai siti e ai canali satellitari di oggi, il movimento ha edificato un sistema di comunicazione vasto, decentrato e tenace. L’obiettivo non è soltanto diffondere idee, ma forgiare una mentalità: un mondo in cui la politica si piega alla religione e la religione diventa politica.

Dopo la caduta di Morsi nel 2013, la Fratellanza ha perso il potere in Egitto ma non la voce. Anzi, l’esilio l’ha resa ubiqua. Dalla Turchia e poi dall’Europa sono nati canali come Mekameleen TV, il cui nome significa “continueremo”: studi anonimi, redazioni mobili, una produzione continua di talk show e video diffusi sui social. Ogni programma ripete la stessa formula: vittimismo, eroismo, tradimento. Israele è il male, Hamas l’eroe, i governi arabi complici. Il mito della “resistenza” viene riplasmato per ogni emergenza, come un codice ideologico che si rinnova da sé.

Attorno a Mekameleen orbitano decine di canali satellitari e piattaforme digitali — Al-Yarmouk, Watan, MaydanEG e molti altri — che moltiplicano il messaggio. Nessuno dichiara un legame diretto con la Fratellanza, ma i contenuti bastano a definirne la matrice. Il linguaggio è uniforme, la visione del mondo anche. Tutto ciò che contraddice l’impianto islamista viene descritto come corrotto, servile, occidentale.

Nell’ecosistema rientra anche la grande rete qatariota Al Jazeera, che pur senza appartenere formalmente alla Fratellanza ne ha diffuso per anni l’impostazione ideologica. Il suo programma più seguito, “Sharia e vita”, guidato dallo sceicco Yusuf al-Qaradawi, ha portato per quasi due decenni l’idea della Fratellanza nelle case di milioni di arabi, normalizzando concetti di jihad e martirio. Dopo il 2013, molti esponenti in fuga dall’Egitto hanno trovato ospitalità proprio a Doha, talvolta nelle stanze pagate dal network.

Così, mentre le sedi vengono chiuse e i leader arrestati, la propaganda sopravvive nelle fibre ottiche e nei satelliti. È un impero fluido, senza confini né capitale, che si muove tra Istanbul, Londra e Berlino, alimentato da fondazioni, ong e agenzie di comunicazione che riciclano le stesse formule ideologiche. Un apparato mediatico che non ha bisogno di ordini centrali per restare coerente: basta la fede nella propria missione.
Oggi il potere della Fratellanza non si misura in seggi parlamentari ma in visualizzazioni. La sua forza è la capacità di occupare lo spazio mentale, di insinuarsi nei discorsi e nell’immaginario di chi la guarda. Ogni video, ogni post, ogni diretta contribuisce a creare un senso di comunità e di persecuzione, un collante che sopravvive a ogni sconfitta politica.

Non è un fenomeno folcloristico né un dettaglio mediatico: è il motore di una strategia di lungo periodo. Se i governi occidentali e arabi si concentrano solo sulle strutture politiche, lasciano intatto il cuore del movimento: la sua macchina comunicativa. In un’epoca in cui il consenso nasce dallo schermo, i Fratelli Musulmani hanno già vinto la prima battaglia, quella per l’ascolto.


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