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Libano: la guerra che cova sotto la tregua

Shira Navon

Tempo di Lettura: 3 min
Libano: la guerra che cova sotto la tregua

Nel Libano meridionale, devastato da anni di dominio delle milizie islamiste, la tregua assomiglia a un’ombra che si dissolve a ogni alba. Da giorni i droni israeliani sorvolano l’area di Bint Jbeil e Marjayoun, colpendo depositi e postazioni di Hezbollah, che risponde con razzi e mortai contro le basi di Metula e Kiryat Shmona. I due fronti si osservano, si colpiscono, si misurano: nessuno vuole una guerra aperta, ma nessuno intende apparire debole.

Nawaf Salam, alla guida del governo di Beirut, prova a restare in equilibrio tra la pressione internazionale e ciò che accade nel Sud del Paese. Il Libano ha approvato un piano di “ricomposizione della sovranità” nel Sud che prevede il graduale disarmo delle milizie e il rafforzamento dell’esercito regolare. È però un piano più di formule che di fatti. La realtà è sotto gli occhi di tutti: le truppe di Hezbollah restano radicate nei villaggi, godendo dell’appoggio tacito di larga parte della popolazione sciita, mentre il governo non ha né la forza né l’autorità per costringerle a cedere terreno.

Hezbollah, dal canto suo, continua a presentarsi come “parte della resistenza”, rivendicando la legittimità della propria presenza finché Israele occuperà porzioni di territorio conteso. Nonostante i colpi mirati che ne hanno decimato la dirigenza nell’ultimo anno, il movimento mantiene un tono di sfida controllata. Più che di escalation, si parla di attrito costante a bassa intensità: i comandanti locali definiscono le azioni “resistenza difensiva”, un lessico che serve a contenere l’operatività e insieme a giustificarla.

Gerusalemme non intende allentare la pressione. Negli ultimi giorni l’esercito ha rafforzato la fascia settentrionale, mobilitando riservisti e installando nuovi sistemi antimissile. L’intelligence teme che Hezbollah stia riposizionando droni d’attacco a corto raggio e missili anticarro nelle aree rurali al confine con Israele, che a sua volta afferma di voler prevenire la creazione di una “zona di fuoco permanente”, ribadendo che il rientro dei civili evacuati potrà avvenire solo dopo il completo ritiro delle forze di Hezbollah a nord del fiume Litani, come previsto dalla risoluzione ONU 1701.

Le pattuglie di UNIFIL sono spesso ostacolate; i contatti con la popolazione locale restano difficili e i mediatori faticano a mantenere canali di comunicazione stabili tra esercito libanese e forze israeliane. Le violazioni della linea blu sono in aumento, al punto che l’ONU ha segnalato decine di incidenti soltanto nell’ultimo mese.

Il quadro interno del Libano è altrettanto precario: economia al collasso, moneta in caduta, corruzione radicata in ogni struttura amministrativa. L’esercito, malpagato e sottoequipaggiato, fatica a garantire sicurezza nelle aree meridionali, dove la popolazione civile — oltre 80mila sfollati — vive tra campi minati, case distrutte e infrastrutture inesistenti.

In questo contesto, la politica libanese si muove con la consueta lentezza. I partiti cristiani invocano il disarmo di Hezbollah, quelli sciiti lo difendono e i sunniti osservano senza reale potere d’intervento. Il governo Salam cerca sostegno internazionale, ma gli aiuti promessi da Europa e Stati del Golfo restano in larga parte lettera morta. Per ora la guerra non è riesplosa, ma la tregua si logora, gli incidenti aumentano e il confine torna a essere il punto più vulnerabile. Il Libano, ancora una volta, resta sospeso tra una pace che non riesce a garantire e una guerra che non può permettersi.


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