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L’eterno complotto: quando l’antisionismo raddoppia l’antisemitismo

Andrea Molle

Tempo di Lettura: 4 min

«L’antisemitismo non è mai stato solo una forma di pregiudizio. L’antisemitismo è una visione del mondo». È un paradigma, un filtro attraverso il quale eventi complessi e spesso inspiegabili razionalmente vengono distorti in una narrazione semplicistica e tossica: quella del complotto ebraico.

Oggi, questa logica sopravvive con gli hashtag. Che si tratti dell’accusa che gli ebrei controllino la finanza globale, che Israele abbia orchestrato l’11 settembre, o che ogni critica rivolta ad Hamas sia pagata dal Mossad, la struttura del complotto resta identica: onnipotente, invisibile e intrinsecamente malvagia.

Negli ultimi anni, il mito dell’infallibilità del Mossad è diventato uno dei pilastri di questa narrazione. Dai romanzi di spionaggio ai tweet virali, l’agenzia di intelligence esterna israeliana è spesso dipinta come onnisciente, onnipresente e onnipotente. Una parte di questa reputazione deriva da successi reali: dalla cattura di Eichmann in Argentina al raid di Entebbe, al “Pager Plot” contro Hezbollah, passando per le operazioni cyber contro l’Iran. Una mitologia scolpita nell’immaginario sociale anche grazie a Hollywood.

Ma questa mitologia si è gonfiata al punto di sfociare nell’assurdo, trasformandosi nell’idea che il Mossad sia dietro ogni evento – reale o immaginario che sia. E questo mito viene poi usato anche contro chiunque osi difendere Israele nello spazio pubblico. Giornalisti, accademici (pochi, per carità!) e persino semplici utenti dei social media che esprimono posizioni vagamente filo-israeliane o mettono anche solo in discussione le narrazioni palestinesi vengono subito bollati come «agenti del Mossad», «troll dell’hasbara» o «marionette sioniste». Non è più un dibattito, ma una delegittimazione mascherata da attivismo.

Ciò che rende particolarmente tossico questo fenomeno è che si traveste da antisionismo, ma attinge comunque a piene mani dai manuali più antichi dell’antisemitismo. Non basta più criticare la politica di Israele – atto legittimo, e ci mancherebbe. Bisogna assumere religiosamente che ogni difesa del punto di vista di Gerusalemme sia frutto di un disegno coordinato e ben pagato. L’individuo scompare, assieme alla tanto decantata distinzione tra Israele ed ebrei. Una distinzione che serve solo per rinfacciare a questi ultimi di non rinnegare Israele. E resta solo il presunto burattinaio. Come se una persona ebrea, o chi si schiera dalla sua parte, non possa esprimere convinzioni sincere, ma solo agire per obbedienza a un oscuro comando di Stato.

L’ironia è che coloro che denunciano la presunta propaganda israeliana spesso cadono essi stessi vittime di una forma di manipolazione. Non riescono più ad ammettere che Israele, come ogni altro Stato, possa fallire. Perché per loro Israele è il male assoluto. E il male assoluto, nella visione escatologica antisemita più classica, non sbaglia mai. Eppure la storia lo dimostra: il tentativo fallito di avvelenare Khaled Mashal nel 1997, l’assassinio maldestro e sovraesposto di un operativo di Hamas a Dubai nel 2010, fino al clamoroso fallimento dell’intelligence nell’anticipare il massacro del 7 ottobre. Nessuno di questi episodi testimonia l’infallibilità del Mossad. Anzi, proprio il contrario. Sono gli errori di uno Stato che, come tutti, sbaglia valutazioni, sottovaluta i rischi e a volte crolla sotto il peso delle proprie certezze.

Ma i fatti raramente sopravvivono negli ecosistemi complottisti. In quegli ambienti, ogni errore diventa una copertura, ogni fallimento un bluff strategico. Così, quando Israele viene attaccato – con i razzi, con le parole, con la diplomazia – chi esprime solidarietà viene immediatamente dipinto come un propagandista prezzolato. Uno studente che difende l’autodeterminazione ebraica diventa un bot dell’hasbara. Un giornalista che documenta le atrocità di Hamas viene accusato di recitare un copione scritto a Gerusalemme (anzi, a Tel Aviv). Un docente universitario che si permette di confutare la narrazione postcoloniale palestinese diventa al libro paga del Mossad. L’accusa non vuole essere dimostrata, ma solo intimidire. È fatta per zittire. È fatta per punire.

Quanto detto non significa assolvere aprioristicamente Israele dalle sue responsabilità. Al contrario. Il dibattito critico, anche severo, sulle sue politiche è sempre necessario. Ma deve basarsi sulla realtà, non sul mito. C’è differenza tra criticare un governo e demonizzare un popolo come burattinaio del mondo. C’è differenza tra discutere con qualcuno e accusarlo di essere una spia. E c’è differenza tra giustizia e propaganda.
Distinguere queste cose non serve a censurare il dissenso. Serve a proteggerlo da se stesso, dalla sua deriva paranoica. Quando la critica a Israele assume la stessa grammatica dei «Protocolli dei Savi di Sion», non è più resistenza: è razzismo. E la storia ci insegna fin troppo bene dove porta quella strada.


L’eterno complotto: quando l’antisionismo raddoppia l’antisemitismo
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