Dublino si ferma un attimo prima del baratroIl primo viaggio apostolico di papa Leone XIV in Turchia e in Libano si è rivelato più complesso del previsto nel Paese dei cedri, a dispetto di quanti sostengono – sulla base di valutazioni storiche e teologiche tutte da dimostrare – che la dimensione ecumenica sia più gestibile di quella interreligiosa. Non è stato così. Anzi, per certi versi lo scenario si è capovolto. In Turchia, dove i cristiani sono una minoranza, l’ecumenismo ha ricevuto nuovo slancio grazie alla dichiarazione congiunta di Leone XIV e del patriarca Bartolomeo, nella quale si rifiuta «qualsiasi uso della religione e del nome di Dio per giustificare la violenza». In Libano, invece, dove la presenza cristiana è molto più solida, il Pontefice ha dovuto fronteggiare impulsi tutt’altro che inclini al dialogo interreligioso, soprattutto nei confronti dell’espressione politica dell’ebraismo.
Il patriarca di Antiochia, rivolgendosi al Papa, ha definito Israele una grave minaccia per i libanesi. Pensare che il dialogo interreligioso proceda come variabile indipendente rispetto a quello ecumenico è fuori dalla storia. È però contrario alla fede delle Sacre Scritture immaginare che il dialogo interreligioso non trovi la sua sfera più alta e necessaria nel rapporto con gli ebrei. Questo punto, delicatissimo e cruciale nella tradizione cattolica, sembra essere sfuggito tanto all’«Osservatore Romano», quotidiano ufficioso della Santa Sede, quanto ad «Avvenire», organo della Conferenza episcopale italiana.
Ieri, per esempio, nel suo editoriale in prima pagina, Pierangelo Sequeri – tra i teologi più autorevoli del panorama italiano e riferimento per gli ambienti culturali dell’Università Cattolica di Milano – si è concentrato, giustamente, sull’accordo tra Leone e Bartolomeo, ma ha taciuto sulle gravi parole del patriarca antiocheno Mar Ignatio Efraim. Quest’ultimo ha imputato a Israele la responsabilità, definendola «persecuzione», di far fuggire cristiani e musulmani dal Libano attraverso periodiche incursioni aeree. Parole pronunciate durante la cerimonia interreligiosa in piazza dei Martiri a Beirut, presieduta dal Papa, a poche ore dalla dichiarazione congiunta in cui Leone e Bartolomeo stigmatizzavano l’uso politico di Dio per giustificare le guerre.
Se c’è davvero un uso strumentale dei testi sacri – come dimostrano le vicende storiche dalla rivoluzione khomeinista del 1979 all’eccidio del 22 ottobre 2023 – è quello messo in opera dal fondamentalismo islamico di matrice politica. Su questo, però, si glissa. Che lo facciano gli imam è comprensibile, per quanto mistificatorio. Grave, invece, è che alcuni patriarchi cristiani arrivino a equiparare Israele alle formazioni terroristiche, pur conoscendo bene la radicale differenza nelle condizioni di libertà religiosa garantite dalla nazione ebraica rispetto alla maggior parte dei Paesi islamici.
La presbiopia di una parte della gerarchia cattolica verso il monoteismo ebraico – più prossimo e storicamente fondativo – rispetto a quello coranico ha come ricaduta l’inconsapevole percezione di Israele come Stato teocratico per antonomasia, prima ancora che espressione mediorientale dell’Occidente. Lo pensa il patriarca dei maroniti Bechara Rai, per esempio. Ma ne sono convinti anche più di uno in Vaticano.
Leone XIV ha ricordato a cristiani e musulmani che in Libano minareti e cattedrali convivono spesso nello stesso spazio urbano. E un Papa agostiniano non può che farsi esempio, ricordando che l’opera teologica più importante di Agostino d’Ippona, il De Civitate Dei, si fonda su un confronto incessante tra i testi della Prima Alleanza ebraica e quelli della Seconda cristiana. Tutto ciò implica, oggi più che mai, un recupero convinto dei valori positivi che la cristianità – pur in crisi – ha contribuito a testimoniare nell’edificazione della civiltà occidentale, tanto sul piano giuridico quanto su quello politico.: il parco Herzog resta
Dublino si ferma un attimo prima del baratro: il parco Herzog resta

