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L’economia in Israele, il miracolo ostinato

Shira Navon

Tempo di Lettura: 3 min
L’economia in Israele, il miracolo ostinato

In qualunque altra parte del mondo, due anni di guerra sarebbero bastati a mettere in ginocchio un’intera economia. In Israele no. Il Paese ha combattuto a lungo (e ancora combatte) e intanto cresce. Il motore hi-tech non solo non si ferma, ma accelera. Il paradosso è solo apparente: sirene nei cieli e capitali che arrivano, mobilitazioni di riservisti e borse in rialzo. Una normalità anomala, costruita su lucidità, metodo e una fiducia che resiste più delle mura.

Nel 2025 le operazioni di fusione e acquisizione hanno raggiunto settantun miliardi di dollari, quasi cinque volte l’anno precedente. La vendita di CyberArk al colosso Palo Alto Networks per venticinque miliardi e l’acquisto di Wiz da parte di Google per trentadue hanno acceso un effetto domino. Ogni grande exit genera una costellazione di nuovi investitori, spesso giovani ingegneri o startupper che reinvestono parte del ricavato nel sistema. È così che l’ecosistema si autoalimenta: un circuito chiuso di capitale, competenza e ambizione.

Dietro il clamore dei numeri, però, c’è una trasformazione silenziosa. Il numero di nuove startup cala, le assunzioni nella ricerca rallentano. Non è più la stagione dell’ebbrezza: la “Start-Up Nation” è diventata adulta. Meno sperimentazione, più consolidamento. Gli investitori scelgono con cautela, le aziende mirano alla redditività, i fondi scommettono su strutture solide. È una maturazione forzata, nata dalla necessità di muoversi in un ambiente instabile ma ancora fertile.

Eppure, nonostante il conflitto, l’economia tiene. Il prodotto interno lordo cresce attorno al tre e mezzo per cento, lo shekel rimane una delle valute più forti, la Borsa di Tel Aviv continua la sua corsa. Le esportazioni tecnologiche rappresentano più della metà del totale nazionale e quasi un quarto delle entrate fiscali. In altre parole: se Israele si ferma, il mondo digitale rallenta.

Il Paese resta un laboratorio di resilienza, ma anche un terreno scivoloso. L’emigrazione qualificata è in aumento, le famiglie di alcuni imprenditori si trasferiscono all’estero, eppure molti tornano, attratti dal ritmo, dall’energia, dall’idea di costruire dove tutto sembra impossibile. C’è chi lo chiama spirito pionieristico, chi semplicemente abitudine al rischio.

In questo scenario, l’eventuale apertura con l’Arabia Saudita promette di spalancare nuovi canali di cooperazione e investimento. Normalizzare i rapporti significherebbe non solo un passo diplomatico, ma una boccata d’ossigeno per il sistema industriale e tecnologico. C’è già chi prepara i contratti, i voli, i fondi comuni. Il Medio Oriente che dialoga in inglese e codice binario non è più una fantasia.

Israele ha imparato a convivere con l’incertezza. A costruire mentre cade la pioggia. La sua economia non sfida la gravità per miracolo, ma per metodo. È una forza che non si dichiara: semplicemente agisce, cresce, innova. E anche se le sirene tornano a suonare, nei laboratori di Tel Aviv, Haifa e Herzliya le luci restano accese. Un Paese in guerra che continua a comportarsi come se il futuro fosse già cominciato.


L’economia in Israele, il miracolo ostinato
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