Si direbbe una giornata come tante, e invece è una di quelle che fanno saltare sulla sedia. Perché dietro una decisione apparentemente innocua si intravede qualcosa di più vasto: un terreno già fertilissimo per banalità, conformismo e sovrastrutture ideologiche. Parliamo del corso annunciato da Princeton University per la primavera del 2026, intitolato “Gender, Reproduction, and Genocide”, che prenderà come focus centrale “l’attuale genocidio a Gaza”. Un’offerta didattica che tiene insieme “genocidio”, “riproduzione”, “genere”, “pensiero indigeno” e “pensiero femminista/decoloniale”.
Di fatto, una palestra di slogan accademici: un crogiolo in cui verità preconfezionate vengono elevate a dogma. Non siamo di fronte soltanto a uno slittamento concettuale abusivo, ma al riflesso di una cultura conformista che, sotto la bandiera del progressismo, costruisce una cassa di risonanza pressoché intollerante verso ogni dissenso.
Primo punto: usare il termine “genocidio” senza una trattazione critica e contestuale, che includa dati, contraddizioni e punti di vista molteplici, equivale a un atto di fede. Anzi, di malafede. In qualunque biblioteca del mondo è acquisito che “genocidio” non è parola leggera, ma categoria storica e giuridica rigorosa, gravata da definizioni politiche e morali. Se un corso la assume come chiave ideologica e la applica sin dall’inizio al conflitto tra Israele e Hamas, non apre uno spazio di ricerca: sancisce una sentenza. Sostituisce la domanda con una verità anticipata.
Secondo punto: l’intersezione tra “genere”, “riproduzione” e “sopravvivenza della comunità” è in sé stimolante. Ma quando diventa il pretesto per importare un’agenda attivista dentro l’università, il rischio è che la riflessione svanisca e resti solo la griglia ideologica. Il corso promette di collegare Gaza, la Shoah, il genocidio armeno, la violenza storica contro popolazioni nere e indigene, in una rete che finisce per dissolvere la specificità storica di ciascun evento. Il risultato è un duplice appiattimento: del pensiero critico e della memoria, sostituiti da una retorica valoriale che non ammette che alcuni conflitti siano unici, complessi, non assimilabili.
Terzo punto: il conformismo della cosiddetta woke culture. Se il dissenso diventa automaticamente sospetto, se la contestazione è bollata come “genocidaria” o “coloniale” senza discussione, l’università smette di essere luogo di esplorazione e diventa amplificatore di ortodossie. Il fatto che la docente designata, Nadera Shalhoub-Kevorkian, sia nota per posizioni estreme (accuse reiterate di genocidio contro Israele, dubbi sulle violenze sessuali del 7 ottobre) è meno rilevante della dinamica complessiva: il messaggio implicito è che il verdetto è già scritto. L’ambiente accademico, che dovrebbe essere riflessivo e aperto, si trasforma in tribunale.
In tutto questo c’è una forma di banalità del male quotidiano: non il male fragoroso, ma quello silenzioso che si diffonde quando il giudizio diventa semplice, standardizzato, replicato senza fatica. Quando la provocazione smette di essere strumento critico e si istituzionalizza. Quando le aule universitarie non sono più spazi di domanda, ma circoli di conferma. E quando le parole grandi — genocidio, sopravvivenza, riproduzione — diventano cachet ideologici, non strumenti di pensiero.
Si potrebbe obiettare che l’università ha il diritto di esplorare queste intersezioni e che il conflitto israelo-palestinese merita analisi profonde. Nulla da eccepire, se non sul metodo. Se un corso assume come assioma la formula “genocidio a Gaza”, rinuncia alla funzione primaria del sapere critico: la messa in dubbio programmata, l’apertura al contraddittorio, la disponibilità a rivedere le proprie ipotesi. È qui il cortocircuito: attivismo travestito da accademia.
Che cosa vogliamo, allora? Un’università che produca pensiero libero o che distribuisca dottrine prestabilite? Nel secondo caso, il politicamente corretto ha già vinto. Nel primo, è necessario che studenti, docenti e istituzioni difendano la complessità, l’ascolto dell’altra parte, il conflitto dentro le idee. Non per nostalgia di tempi meno sensibili, ma perché profondità e durata della riflessione richiedono difficoltà, non scorciatoie ideologiche.
Quella che sembra una scelta accademica qualunque è un sintomo. E come ogni sintomo va interrogato guardando al corpo che lo produce. Il rischio non è soltanto un giudizio sbagliato su un conflitto, ma un intero impianto che impone visioni, compatta gli sguardi, semplifica il mondo. Per chi ama le lingue, la storia, il pensiero libero, questa è una perdita che non si può lasciare passare sotto silenzio.
Learning dogma. La follia del politicamente corretto nelle aule d’élite
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