Le chiamavano ratlines, letteralmente “vie dei topi”. Una definizione brutale ma perfetta per descrivere il sistema segreto che permise a centinaia di criminali nazisti di sparire dall’Europa dopo il 1945. Non fuggiaschi nella notte da qualche cella improvvisata, ma accompagnati passo dopo passo attraverso confini, consolati, porti e aeroporti, fino alle rive tranquille dell’Argentina o alle fattorie isolate del Paraguay. È un capitolo oscuro del dopoguerra, spesso minimizzato, che mostra come geopolitica e indifferenza possano trasformarsi in silenziosa complicità.
Le ratlines non furono una singola struttura, ma un intreccio di corridoi, cellule, contatti personali e istituzionali. A Roma e Genova, snodi cruciali delle fughe, si incrociavano almeno tre reti distinte: residui dell’apparato nazista, gruppi cattolici anticomunisti e agenti occidentali convinti che alcuni ex fascisti potessero rivelarsi utili nella nuova guerra contro Mosca. Il nome di monsignor Alois Hudal, rettore del Collegio Teutonico, è divenuto quasi simbolico: aiutò direttamente decine di ex SS fornendo documenti, appoggi e vie sicure. Ma ridurre a lui l’intero sistema sarebbe sciocco: le ratlines funzionavano perché molti avevano interesse a farle funzionare.
Il percorso tipo iniziava spesso in Austria o in Germania. L’ex nazista raggiungeva l’Italia con documenti falsi, si presentava all’International Committee of the Red Cross per ottenere un passaporto provvisorio e poi salpava da Genova. Destinazione preferita: Buenos Aires. Juan Domingo Perón, che guidava l’Argentina con un mix di autoritarismo e modernizzazione, era convinto che ingegneri, medici e tecnici tedeschi avrebbero rafforzato il Paese. Nel pacchetto arrivarono anche assassini di massa come Adolf Eichmann, Josef Mengele, Erich Priebke e il boia di Lione, Klaus Barbie.
I governi sudamericani non erano spettatori ingenui. Il Paraguay del generale Stroessner distribiva cittadinanze con una facilità sorprendente. Il Brasile chiudeva entrambi gli occhi purché i nuovi arrivati si mimetizzassero nelle comunità tedesche del sud. La Bolivia considerava quei transfughi un capitale di “esperti di sicurezza”. Intanto l’Europa del dopoguerra tentava di rialzarsi, mentre le priorità cambiavano rapidamente: il comunismo sovietico sostituiva il nazismo come nemico principale.
È in questo contesto che le ratlines diventano un fatto politico, non solo criminale. Molti servizi segreti occidentali iniziarono a chiedersi se alcuni ex nazisti non fossero “riutilizzabili”. L’Occidente voleva informazioni sulla Russia, sulla Cina maoista, sulle tecniche di interrogatorio o sulle infrastrutture militari tedesche. Alcuni di questi uomini finirono direttamente nell’apparato della Germania Ovest; altri furono semplicemente lasciati andare. L’idea di processarli smise di essere considerata strategica.
Le ratlines furono il prodotto di tutto questo: cinismo diplomatico, interessi incrociati, omissioni consapevoli. Il Vaticano, negli anni più duri della guerra fredda, vedeva nel comunismo una minaccia apocalittica, e molti prelati ritenevano quasi un dovere morale aiutare “profughi anticomunisti europei”. Alcuni ignoravano chi stessero proteggendo; altri lo sapevano perfettamente.
Le fughe più note seguirono tutte la stessa traiettoria: Eichmann arrivò in Argentina nel 1950, vivendo come Ricardo Klement fino al sequestro da parte del Mossad nel 1960. Mengele, sbarcato l’anno prima, si muoveva con calma. Klaus Barbie divenne consulente dei servizi segreti boliviani negli anni Settanta, addestrando squadre paramilitari.
Ciò che resta più terribile non è la fuga in sé, ma la normalità con cui avvenne. Dopo aver contribuito a costruire l’inferno, molti di questi uomini trovarono un mondo pronto a ospitarli purché potessero servire a qualcosa o rimanessero nell’ombra. Le ratlines non furono solo vie di fuga: furono lo specchio di un’epoca che preferì guardare avanti, anche se questo significava calpestare la giustizia.
Ed è qui, ancora oggi, la domanda più amara: non come scapparono, ma perché così tanti li lasciarono andare.
La perseveranza contro l’odio
La perseveranza contro l’odio

