Il 1979 è l’anno spartiacque. Con gli Accordi di Camp David e il trattato di pace firmato da Anwar Sadat e Menachem Begin, Egitto e Israele mettono fine a trent’anni di guerre. L’Egitto riconosce Israele e Israele restituisce il Sinai. È una pace fredda fin dall’inizio: solida sul piano strategico, povera di relazioni tra le società.
Dopo l’assassinio di Sadat, Hosni Mubarak mantiene il trattato come pilastro della sicurezza regionale. La cooperazione è discreta ma costante, soprattutto sul piano militare e dell’intelligence. Il Sinai viene smilitarizzato; il confine resta uno dei più stabili di Israele. Sul piano politico e culturale, però, il gelo non si scioglie e l’opinione pubblica egiziana resta largamente ostile a Israele.
Dopo il 2011 e la caduta di Mubarak, il rapporto entra in una fase di incertezza. Il breve governo dei Fratelli Musulmani irrigidisce i toni, ma senza rompere il trattato. Con l’arrivo di Abdel Fattah al-Sisi, le relazioni tornano a rafforzarsi in termini di sicurezza. Israele ed Egitto cooperano strettamente contro il jihadismo nel Sinai, con un coordinamento militare senza precedenti, anche se poco visibile.
Gaza è il nodo centrale. L’Egitto controlla il valico di Rafah e svolge un ruolo chiave di mediatore tra Israele e Hamas. Non lo fa per simpatia verso Israele, ma per interesse proprio: Hamas è un’estensione dei Fratelli Musulmani, nemici diretti del regime egiziano. Instabilità a Gaza significa instabilità anche per il Sinai e per il potere cairota.
Negli ultimi anni, le relazioni restano pragmatiche e indispensabili. Niente normalizzazione “calda”, ma cooperazione energetica nel Mediterraneo orientale, dialogo costante sulla sicurezza e ruolo egiziano centrale in ogni crisi regionale.
Più che un matrimonio, la pace Israele–Egitto è un patto di sopravvivenza reciproca. E forse è proprio per questo che, da oltre quarant’anni, regge.
Le relazioni Israele–Egitto dal 1979 a oggi

