C’è un nuovo e svergognato manuale linguistico che usa termini come carestia, genocidio, pulizia etnica. Parole che un tempo schiacciavano come macigni e che oggi rimbalzano leggere nei comunicati, nei tweet, nei cortei con l’hashtag a portata di mano.
È il nuovo gergo della manipolazione: prendi un termine tragico, lo spogli del suo dolore e lo usi come manganello morale. Ogni conflitto diventa un “genocidio”, ogni difficoltà una “carestia”, ogni confine un “muro”. E subito arriva la processione dei buoni, quelli che invece “costruiscono ponti”, che “preparano la pace”, che trasformano la lingua in zucchero filato con tanta aria e nessuna sostanza.
È il lessico da omelia permanente della Chiesa cattolica versione ONU, laddove l’irenismo è la coperta calda sotto cui ficcare la testa per non vedere la realtà. Parole facili per pensieri ristretti.
E così, a forza di voler dire tutto, non si dice più niente. Nel mondo delle parole svuotate, chi prova a restituire loro un peso sembra brutale. Ma non è brutalità: è memoria. È la differenza tra chi parla per consolare e chi parla per capire.
Le parole vuote fanno rumore
Le parole vuote fanno rumore
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