Le lacrimucce degli ipocriti arrivano puntuali come un comunicato stampa, impeccabili come una foto in bianco e nero. Volti contriti, parole gravi, dichiarazioni di cordoglio, solidarietà a profusione. Tutto falso come una dentiera.
La verità che questa gente non è spettatrice innocente ma del problema. Da anni lavora, consapevolmente o per codardia, alla normalizzazione dell’antisemitismo. Ha legittimato il linguaggio dei carnefici, ha accarezzato le tesi dei terroristi, ha definito “resistenza” ciò che era e resta barbarie. Ha trasformato l’odio in opinione, la violenza in contesto, il massacro in “complessità”.
Ora piangono. Ma piangono male. Come chi spera che basti una dichiarazione per lavarsi la coscienza. Solo che la coscienza non è sporca né macchiata: è assente. Non sanno cosa sia. Non sanno cosa significhi assumersi una responsabilità morale per le parole dette, per i silenzi coltivati, per le piazze applaudite.
È la stessa gente che adora condolersi per gli ebrei morti e, nello stesso respiro, considera legittimo desiderare la scomparsa degli ebrei vivi. Che si commuove davanti ai cadaveri ma prova fastidio davanti all’esistenza concreta, armata, autonoma, imperfetta degli ebrei che si difendono. Il lutto come alibi, non come presa di coscienza.
Dopo il 7 ottobre non c’erano più scuse. Dopo il 14 dicembre nemmeno le maschere tengono. Il gioco è finito, le parole consumate, il credito morale evaporato. Il mondo, quello che vuole restare civile, lucido, minimamente onesto, può fare a meno di questa ipocrisia strutturale.
Non servono più i loro umidi di collirio. Servirebbe il loro silenzio. O, per una volta, una resa dei conti con se stessi. Ma quella richiede una coscienza. Che, appunto, a loro manca.
Un po’ di chiarezza
Un po’ di chiarezza
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