Ha dell’incredibile eppure è così: c’è un sito iraniano, regolarmente autorizzato dallo Stato, che permette ai genitori di iscrivere alla “ricerca del coniuge” bambine di tredici anni. Si chiama Adamo ed Eva, un nome che copre una realtà a dir poco brutale. L’inchiesta del quotidiano Shargh (uno dei principali quotidiani riformisti dell’Iran, noto per le sue inchieste, per le posizioni critiche nei confronti della linea più dura del regime e per l’attenzione ai temi sociali, spesso scomodi per l’establishment iraniano) ha rivelato profili di minorenni senza alcuna barriera d’età, nessuna domanda sul consenso, nessuna tutela reale. Le maggior parte delle bambine ha tra i tredici e i sedici anni; i maschi sono poco più grandi. Un gran numero proviene dalle aree più povere del Paese, dove il matrimonio precoce è normale quanto il silenzio che lo circonda.
Mohammad-Hossein Asghari, responsabile del sito, si fa scudo della legge: in Iran è legittimo sposarsi a tredici anni se sei una femmina, a quindici se sei un maschio. All’interno di questa ripugnante cornice giuridica, la piattaforma si vanta di aver registrato circa trecentomila tentativi di iscrizione, settantamila dei quali accettati dopo presunti “controlli psicologici”. Nel 2024, secondo il Centro Statistico iraniano, quasi ventiseimila bambine sotto i quindici anni sono andate in sposa e il regime incoraggia apertamente questa pratica. La guida suprema Khamenei vuole infatti una popolazione da centocinquantamilioni e considera l’aumento delle nascite un obiettivo nazionale. Le vite individuali sono sacrificabili: l’importante è raggiungere la cifra.
Ciò che sorprende, però, non è solo la ferocia di un sistema che promuove matrimoni forzati di minori, ma il mutismo occidentale. In Italia, in particolare, il femminismo da talk-show sembra incapace di indignarsi per le donne che vivono sotto regimi teocratici. È come se il patriarcato valesse solo quando indossa i panni dell’uomo bianco europeo; quando ha la barba degli ayatollah, l’indignazione scompare. Le bambine iraniane non servono alla causa, non alimentano la coreografia identitaria, non fanno trending topic. Dunque, taciute.
Lo stesso meccanismo si ripete con le donne israeliane aggredite, stuprate e uccise il 7 ottobre. Qui non c’è solo indifferenza: c’è negazione. Una parte del femminismo nostrano preferisce mettere in dubbio le testimonianze, ridurre i fatti a propaganda, smontare l’evidenza pur di non accettare che l’orrore possa venire da chi reputano “dalla parte giusta”. Difendere le donne, sì, ma solo quelle che non costringono a rivedere la propria ideologia.
Ed è questo il punto: se la solidarietà è condizionata, non è solidarietà. È calcolo. È comodo posizionamento morale. Così una bambina data in sposa a dieci anni può essere mostrata in un video e non suscitare più di un’alzata di spalle; e una ragazza israeliana torturata può venir liquidata come “caso controverso”. Tutto purché non si incrini la narrazione rassicurante di cui questi movimenti si nutrono.
Nel frattempo, il sito Adamo ed Eva continua a funzionare, il regime continua a spingere, e migliaia di bambine continuano a essere trattate come oggetti di proprietà. Non mancano i dati, mancano le voci. E a forza di selezionare le ingiustizie per compatibilità politica, si finisce per tradire l’unico principio che dovrebbe contare davvero: difendere chi non può difendersi. Le minori dell’Iran rientrano perfettamente in questa categoria. Ma, evidentemente, non ancora nel nostro orizzonte morale.
Le bambine d’Iran che non vediamo
Le bambine d’Iran che non vediamo

