Nel Pd sono riusciti a fare una cosa che richiede talento: litigare persino sull’antisemitismo. Non sulla politica estera, non sul lavoro, non sulle alleanze: sull’antisemitismo. Roba che altrove imporrebbe silenzio, misura, compattezza. Nel partito comandato dalla zarina di tutte le risse no. Qui è tutto uno scatto in avanti per poi dare la colpa a chi è rimasto fermo.
Delrio presenta un ddl che, in un partito minimamente sano, diventerebbe terreno comune. Invece no: fioccano i distinguo, gli allarmi, le scomuniche parallele. Schlein teme di sembrare troppo vicina alla destra; Boccia si lamenta che l’iniziativa non è del gruppo; altri ancora spiegano che la legge è “pericolosa”, manco si stesse discutendo del ripristino della censura zarista. E nel mezzo c’è il solito rito: l’unico che ha letto il testo viene accusato da chi non lo ha sfogliato nemmeno.
Che il partito della sinistra democratica non riesca più a riconoscere la differenza tra la critica a un governo e l’odio contro gli ebrei non è un problema politico: è un sintomo clinico. È il punto in cui non solo hai perso la bussola, ma ti sei anche convinto che tenerla in mano sia un gesto reazionario.
La scena, vista da fuori, è di un’umiliazione rara: un partito incapace di stare unito nemmeno su ciò che dovrebbe definire i propri valori minimi. E Delrio — che pure non è nuovo alla timidezza politica — finisce per sembrare l’unico adulto in una stanza piena di gente che controlla l’angolazione della propria ombra.
Si dice che la sinistra perda perché non sa comunicare. Forse è più semplice: perde perché quando le metti davanti un principio, ci inciampa. E poi chiede alla platea di applaudire la caduta.
L’arte di inciampare anche sui principi
L’arte di inciampare anche sui principi
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