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La vera islamofobia è la paura di criticare

Andrea Molle

Tempo di Lettura: 4 min
La vera islamofobia è la paura di criticare

Bondi Beach lo ha reso ancora più chiaro: islamofobia è oggi una clava retorica. Serve a chiudere discussioni, a delegittimare critiche, a trasformare ogni analisi sull’Islam — come religione, sistema normativo, fenomeno politico e sociale — in una presunta forma di odio razziale. Eppure, se torniamo all’etimologia, phóbos non indica ostilità, ma paura irrazionale. La domanda, allora, diventa inevitabile: chi è davvero islamofobico oggi?

La vera islamofobia non è la critica, giusta e oggettiva, come quella che giustamente si pretende per Israele. È la paura di criticare. La paura di dire ciò che è evidente. La paura di distinguere tra l’Islam come fede personale e l’Islam come corpus dottrinale e giuridico che, in alcune sue interpretazioni dominanti, entra in conflitto con i principi fondamentali delle società liberali. È la paura di andare contro il pensiero corretto, contro quel riflesso condizionato che impone il silenzio per non “offendere” una minoranza che, nel mondo, tanto minoranza non è.

In Europa — e sempre più anche in Italia — viviamo una situazione paradossale: si può criticare il cristianesimo senza conseguenze, irridere il Papa, mettere in discussione dogmi e tradizioni secolari; si possono insultare gli ebrei e l’ebraismo. Ma sollevare una questione sull’Islam è immediatamente sospetto. Non per ciò che si dice, ma per il fatto stesso di dirlo. Questa non è tolleranza. È paura.

Criticare l’Islam non significa odiare i musulmani. Significa pretendere standard di convivenza. Significa chiedere coerenza tra ciò che una società afferma di essere — laica, pluralista, fondata sui diritti individuali — e ciò che è disposta ad accettare in nome di una tolleranza mal compresa. Significa, soprattutto, voler bene a quei milioni di musulmani che non si riconoscono nella violenza, nell’estremismo, nel suprematismo religioso, ma che vengono sistematicamente presi in ostaggio da una narrazione che li riduce a una “comunità” monolitica.

Facciamo esempi concreti. È islamofobia chiedersi se sia compatibile con uno Stato di diritto l’idea che l’apostasia sia un crimine punibile, in alcuni Paesi, con la morte? È odio razziale osservare che in molte società a maggioranza musulmana le donne godono di diritti inferiori per legge, non per deviazione culturale? È razzismo notare che l’antisemitismo contemporaneo, anche in Europa, trova spesso giustificazioni e linguaggi mutuati direttamente dall’islamismo politico? O ancora: è islamofobia chiedere perché ogni attentato jihadista venga immediatamente descritto come “non rappresentativo”, mentre nessuno sente il bisogno di precisare che Anders Breivik non rappresentava il cristianesimo?

Perché per una religione si pretende l’eccezione permanente, mentre per tutte le altre vale il principio della responsabilità dottrinale, storica e culturale? La verità scomoda è che una parte dell’élite culturale occidentale ha sviluppato una forma di paternalismo profondamente razzista: l’idea che l’Islam non possa essere sottoposto allo stesso livello di critica applicato a ogni altra tradizione religiosa o ideologica. Come se i musulmani fossero incapaci di sostenere un confronto razionale. Come se la critica li spingesse automaticamente verso il radicalismo. È una logica coloniale rovesciata, ma non meno offensiva.

Non a caso, le prime vittime di questa falsa tolleranza sono proprio i musulmani riformisti, laici, liberali, spesso costretti al silenzio o alla clandestinità. Chi critica il velo obbligatorio in Iran, chi denuncia l’uso politico della sharia, chi serve da musulmano nelle forze di difesa israeliane, chi chiede una separazione netta tra religione e Stato nel mondo islamico viene accusato di “fare il gioco dell’Occidente”, quando non direttamente minacciato.

Difendere il diritto di criticare l’Islam non è un atto di ostilità. È un atto di universalismo. Significa affermare che nessuna religione è al di sopra della ragione, del diritto, della discussione pubblica. Significa rifiutare l’idea che la pace sociale si costruisca sulla menzogna o sul silenzio. E significa riconoscere che l’estremismo islamista non nasce nel vuoto, ma si nutre anche di testi, dottrine e interpretazioni che devono poter essere analizzate, contestate, riformate.

La vera islamofobia, dunque, non è la critica all’Islam. È la paura di esercitarla. È la rinuncia alla lucidità in nome di una tranquillità apparente. È il sacrificio dei valori liberali sull’altare del conformismo. E come tutte le paure irrazionali, non protegge nessuno. Al contrario: prepara il terreno ai conflitti che finge di voler evitare. Chiamiamola con il suo nome: islamofobia. È la paura di criticare l’Islam, non il coraggio di farlo, a renderci davvero bigotti.


La vera islamofobia è la paura di criticare
La vera islamofobia è la paura di criticare