Il governo israeliano ha deciso di forzare la mano ignorando i dubbi del capo di Stato maggiore, secondo cui la guerra urbana con l’invasione di Gaza City difficilmente porterà alla resa di Hamas. Non sarà una guerra lampo come quella dei “Dodici giorni” con l’Iran. Il rischio è che il conflitto, in un contesto bellico ad altissima concentrazione urbana, possa trasformarsi in un pantano come accadde in Libano. Le Forze di difesa israeliane dovranno affrontare una guerriglia che potrebbe durare più a lungo del previsto. Un’impresa irta di difficoltà che rischia di trascinare Tsahal nella trappola dei cunicoli e dei tunnel di Gaza, accrescendo drammaticamente il numero delle vittime civili.
Trincerato nel suo oltranzismo, il governo israeliano appare incapace di fornire la pur minima risposta alle domande cruciali su cosa succederà alla fine del conflitto, se mai si arriverà a una conclusione. Una risposta l’ha fornita il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, che ha definito Gaza una “miniera d’oro immobiliare”, un territorio da spartire con gli Stati Uniti. Parole di un incosciente estremista che fanno il paio con quelle usate da Razi Hamed, dirigente di Hamas, nel riferirsi agli ostaggi israeliani ancora nelle mani dei terroristi.
L’aspetto sconvolgente dell’intera situazione è il comportamento cieco della leadership israeliana di fronte al drammatico isolamento in cui versa lo Stato ebraico. Lo ha detto senza fronzoli Eyala Ulata, 23 anni nel Mossad, dove ha diretto il Dipartimento di pianificazione strategica del servizio segreto: «Hamas sta vincendo nell’opinione pubblica con la distruzione dell’immagine di Israele in Occidente… è sorprendente la velocità in cui sta avvenendo… temo che l’opinione pubblica sia persa…». Parole drammatiche di chi ha servito con intelligenza e onore lo Stato di Israele.
Perché, ecco l’interrogativo: nel volgere di pochi mesi, la vittima di uno spietato pogrom è diventata l’aggressore e il popolo sopravvissuto alla Shoah si è ritrovato accusato di genocidio. Si vuole riflettere su questo? È una realtà amara con la quale Netanyahu non intende fare i conti. Il premier israeliano giunge addirittura a non escludere che Israele possa adattarsi, di fronte all’isolamento, a un’economia autarchica, immaginando lo Stato ebraico come una sorta di “super Sparta” autosufficiente a produrre armi. Un delirio.
Netanyahu compromette con il suo oltranzismo gli Accordi di Abramo, che si basavano su un compromesso: Israele rinunciava al sogno irrealizzabile e moralmente corruttore di possedere le terre bibliche di Eretz Israel per privilegiare la normalizzazione con gli arabi. Rischia di crollare un’architettura che era stata il maggior successo diplomatico di Israele e promessa di stabilità regionale, come ha scritto l’ambasciatore Ettore Sequi. Si impone una correzione di rotta da parte dello Stato ebraico. Guardare la realtà invece di perdersi in allucinazioni messianiche.
La guerra dolorosa e spietata cui Israele è stato costretto non è stata vana. L’assedio che voleva soffocare Israele dopo il 7 ottobre è stato spezzato. L’ala militare di Hamas, con la scomparsa di Yahya Sinwar, è praticamente distrutta, Hezbollah sconfitto, il rischio dell’atomica iraniana allontanato. Non solo. La Lega Araba e i principali Paesi arabi — Arabia Saudita, Egitto, Giordania, Qatar, insieme a Indonesia e Turchia — hanno condannato gli attacchi del 7 ottobre, chiesto ad Hamas di restituire gli ostaggi e di deporre le armi. Lo hanno affermato in un documento in cui si auspica il sorgere di uno Stato palestinese smilitarizzato a fianco di Israele.
Vuole partire da questi risultati Israele per costruire una via d’uscita da una situazione drammatica, o intende perdersi prigioniero dell’euforia nazionalistica di gruppi di fanatici che lo condannano a un isolamento angosciante e alla rovina? Può essere la guerra il destino dello Stato ebraico? La forza militare è stata e resta importante, ma quale è oggi l’orizzonte strategico che guida Israele? Nessuno che si interroga sulle sorti della Palestina può sfuggire a un dato: qualsiasi prospettiva di pace presuppone la ricerca di modalità di convivenza tra i due popoli nel territorio della Palestina.
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