Nell’America di oggi esiste una tassa che nessun Congresso ha mai votato, che non compare in alcun codice tributario, ma che grava inesorabile su una parte ben precisa della popolazione: la comunità ebraica. Non ha un nome ufficiale, ma molti la chiamano ormai «tassa sulla sicurezza ebraica». Ed è, purtroppo, una realtà.
Per il solo fatto di voler vivere apertamente e pubblicamente come ebrei, scuole, sinagoghe e organizzazioni comunitarie sono costrette a sostenere costi crescenti per garantire la propria incolumità: guardie armate, telecamere, metal detector e perimetri di sicurezza. Non si tratta di un optional, ma di condizioni minime per esistere nello spazio pubblico.
In molte scuole ebraiche queste spese si traducono in veri e propri contributi per la sicurezza imposti alle famiglie, con costi che superano gli 800 dollari l’anno per studente. Altre volte vengono assorbiti con aumenti di retta o finanziati da donazioni straordinarie. Nei campus universitari, i gruppi studenteschi ebraici devono spesso autofinanziarsi per organizzare eventi, talvolta sotto minaccia di proteste e intimidazioni. In qualche caso, come a Harvard, l’università ha coperto i costi, ma si tratta di eccezioni: spesso, in mancanza di pagamento, l’autorizzazione viene negata – un requisito imposto solo a loro.
C’è chi ha paragonato questa dinamica a una forma moderna di tassa sull’antisemitismo. Ma il parallelo più inquietante viene da molto lontano: la jizya. Nei secoli passati, sotto la dominazione islamica, a ebrei e cristiani era concesso di praticare la propria fede in cambio del pagamento di questa tassa riservata ai non musulmani. Non era solo un’imposta economica, ma un segno di sottomissione e di esclusione. Il prezzo della tolleranza, per non subire persecuzioni.
Ovviamente l’America non è un califfato e nessuna legge impone una tassa formale agli ebrei. Ma il significato simbolico è sconcertante: anche oggi, nel cuore del mondo libero, agli ebrei viene chiesto di pagare per il diritto di esistere pubblicamente, di organizzare eventi, di mandare i figli a scuola o di pregare in sinagoga senza essere esposti alla violenza. Se il meccanismo non è imposto dallo Stato, è comunque reso necessario da una realtà che tollera – e sempre più spesso normalizza – l’odio antiebraico.
Il problema non è nelle scuole che cercano di proteggere i propri studenti o nei gruppi che lottano per la sicurezza. Il problema è a monte: in una società dove l’antisemitismo è tornato a circolare liberamente; dove la solidarietà con i palestinesi – anche quando legittima – è usata come paravento per demonizzare gli ebrei; dove i leader politici e accademici hanno voce ferma contro l’islamofobia, ma balbettano o tacciono di fronte a minacce, scritte e aggressioni antisemite.
La sicurezza dovrebbe essere un bene pubblico, garantito a tutti. Quando invece diventa un onere privato, un lusso da pagare di tasca propria, il principio stesso di uguaglianza civile vacilla. Questa «tassa invisibile» ha un costo materiale – centinaia di milioni di dollari ogni anno – e un costo simbolico ancora più alto: segnala che l’America non è più in grado di garantire a tutti i cittadini, indistintamente, il diritto alla sicurezza e alla dignità.
Se la jizya fu abolita per affermare il principio di uguaglianza, è inaccettabile che una sua versione informale e mascherata stia ricomparendo proprio nel Paese che più di ogni altro si vanta della sua libertà. Dovremmo indignarci non solo per l’odio antiebraico, ma anche per l’assurda normalità con cui si accetta che gli ebrei paghino per proteggersi. Perché quando una minoranza deve autofinanziare la propria sicurezza, è tutta la società a essere in debito.
La tassa invisibile che gli ebrei americani pagano per vivere liberiLa tassa invisibile che gli ebrei americani pagano per vivere liberi La tassa invisibile che gli ebrei americani pagano per vivere liberi