L’idolatria che una parte preponderante della sinistra italiana — M5S in testa, AVS subito dietro, e un PD spesso allineato salvo pochi riformisti determinati a tenere la barra dritta — ha costruito attorno alla Non Avvocatessa Francesca Albanese è uno dei più clamorosi casi di autolesionismo politico volontario degli ultimi vent’anni. Non parliamo di una figura divenuta controversa solo dopo il 7 ottobre: le sue posizioni estreme erano note da tempo. Basterebbe ricordare quando, citando una TV iraniana, suggerì che l’attentato a Charlie Hebdo fosse opera congiunta di CIA e Mossad. In una democrazia adulta, una simile uscita avrebbe chiuso qualsiasi carriera pubblica. In Italia no. E a quanto pare nemmeno all’ONU.
La parabola della Non Avvocatessa — definizione tecnica, visto che non ha mai superato l’esame — segue il copione greco di hybris e até: prima la tracotanza, poi l’accecamento. Ho portato avanti questa piccola battaglia di verità quasi in solitaria, fino alla sua stessa ammissione in un’intervista “gentilissima” su Vanity Fair. Grazie alla tenacia di Hillel Neuer e di UN Watch, il fatto è finito persino in un intervento dell’ambasciatrice USA all’ONU che ne ha chiesto la rimozione dal ruolo di Relatrice Speciale sui diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati.
In Italia, invece, silenzio totale: la notizia non esiste. Albanese diventa magicamente “giurista”, come se fosse sempre stata chiamata così.
Questa rimozione indulgente è già un segnale di quanto sia distorto il quadro complessivo. Finché la guerra tra Israele e Hamas dominava la scena, Albanese era diventata un’icona morale: perfetta per una sinistra postmoderna che ha sostituito Marx con Foucault e Edward Said, e la politica economica con la denuncia rituale dell’Occidente colpevole. Poi è arrivato il cessate il fuoco sostenuto da Stati Uniti e Paesi arabi, la salienza mediatica si è sgonfiata, e la figura dell’Albanese ha cominciato a crollare.
Tre episodi recenti raccontano l’implosione:
il rimprovero al sindaco di Reggio Emilia, “colpevole” di aver ricordato gli ostaggi di Hamas mentre le conferiva la cittadinanza onoraria;
l’abbandono di una trasmissione La7 alla sola citazione di Liliana Segre, contraria a definire “genocidio” la situazione a Gaza;
l’incapacità di condannare il raid dei manifestanti pro-Pal contro La Stampa, presentato invece come un “monito ai giornalisti”.
La sinistra ha comprato il titolo “Albanese” ai massimi e ora si ritrova fra le mani un asset che vale un terzo del prezzo: acquistato a 100, oggi quota 33. Ma la cosa più grave è la gentilezza strutturale dei media italiani verso la sinistra: non più semplice inclinazione culturale, ma un meccanismo di autoprotezione narcisistica. Giornalisti di sinistra che coprono gli errori dei politici di sinistra per non dover ammettere le proprie illusioni.
Il problema non è Francesca Albanese: il problema è una sinistra che non riesce a vivere senza idoli, figure salvifiche che incarnano la sua identità ferita più che gli interessi materiali dei lavoratori. Il ciclo è sempre lo stesso: hybris, ate, esplosione della bolla. Poi la complicità silenziosa dei media. La Sardina Matteo Sartori vi ricorda qualcosa?
Insistere su questa strada significa ripetere l’errore all’infinito. E soprattutto allontanarsi dal Paese reale, che non ha bisogno di icone moralistiche pronte a colpevolizzare l’Occidente “senza se e senza ma”, ma di una politica concreta e pragmatica.
A partire dai lavoratori, che chiedono salari reali più alti grazie alla produttività, non alla retorica.
Diciamolo chiaramente: se c’è un senso di colpa che la sinistra dovrebbe coltivare, è proprio questo. L’incapacità di occuparsi delle condizioni materiali delle persone, preferendo abbracciare le ossessioni decolonizzanti dell’ex idolo — e Mai Avvocatessa — Francesca Albanese.
La sinistra e il suo idolo sbagliato: il caso Albanese
La sinistra e il suo idolo sbagliato: il caso Albanese

