Galei Tzahal sta scivolando verso la chiusura in un clima da farsa istituzionale. I presentatori ricevono messaggi che congelano i contratti dalla prossima settimana; il Ministero della Difesa nega tutto e parla di proroghe fino a febbraio. In mezzo, una dichiarazione giurata racconta una telefonata che ordina l’esatto contrario. È la radio che cade, ma ognuno indica un colpevole diverso.
La Corte Suprema ha chiesto allo Stato di spiegare in fretta cosa stia succedendo. La decisione del governo è arrivata senza legge, contro il parere del Procuratore Generale, e con l’ordine immediato di smantellare la stazione. Il ministro Katz ha già fermato le selezioni e bloccato l’arrivo di nuovi soldati. La macchina è partita, anche se nessuno vuole ammetterlo apertamente.
Galei Tzahal non è un’emittente qualunque. Per decenni ha formato giornalisti e dato spazio a voci diverse. Spegnerla ora significa restringere il campo, togliere un pezzo di pluralismo in un momento fragile. Ma la chiusura procede lo stesso, senza una parola chiara, senza un atto definitivo, senza nemmeno il coraggio di dirlo in modo diretto.
La radio continua a trasmettere, ma sembra già un luogo evacuato. I lavoratori parlano di contratti congelati, il Ministero nega, il governo accelera, la Corte osserva. Tutto si muove, ma nessuno si assume la responsabilità del gesto finale. È una fine silenziosa, quasi imbarazzata, consumata tra uffici che si contraddicono e comunicazioni che cambiano tono a seconda dell’ora del giorno.
Così muore un’istituzione: non con un annuncio solenne, ma con una telefonata serale e una smentita al mattino. Una dissolvenza che non salva nessuno e non onora nessuno. Una chiusura che non ha nemmeno il coraggio di dirsi tale.
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