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La quarta persona della Trinità

Marco Cavallaro

Tempo di Lettura: 4 min
La quarta persona della Trinità

«Sai che X è morto investito?»
«Terribile».
«Sì, ma lo hanno investito dopo che era precipitato da un grattacielo».
«Com’è possibile?»
«Perché l’avevano avvelenato».
«Allora è morto avvelenato!»
«Non proprio: durante la caduta gli hanno sparato da un poligono lì vicino».
«Ma ne sei sicuro?»
«Certissimo. E, per finire, è rimasto impigliato in un filo del bucato che l’ha strozzato prima di toccare terra, dove comunque si è schiantato. E poi, sì, lo hanno investito».


Appena ho finito di leggere la lettera aperta di Roberta De Monticelli a Francesca Albanese, pubblicata il 4 dicembre sul Fatto Quotidiano, mi è tornata in mente questa storiella: una catena di tragedie talmente sovraccarica da dissolvere la tragedia stessa nella caricatura del dolore.

L’apologia della De Monticelli è così enfatica da uccidere ogni serietà. Ammesso e non concesso che il tema lo richieda, l’effetto prodotto è uno solo: il grottesco. Un crescendo di assoluti, grandezze incomparabili, verità metafisiche, talmente sopra le righe da cancellare ogni barlume di storia e di vita.

Il climax arriva in fretta: il paragone della destinataria con il Paraclito, il Consolatore promesso da Gesù prima dell’ascensione. Un parallelismo smisurato, del tutto scollegato dalla realtà. Una trovata retorica così magniloquente da superare, di slancio, le meravigliose macchine del teatro barocco.

Del resto, il cielo a cui guarda questa filosofia — «Uomini di Galilea, perché state a guardare in cielo?» — appare vuoto e disponibile. E allora facilmente lo si riempie di ciò che piace: valori universali, missioni salvifiche, verità definitive. Ma questi assoluti non consolano: non scendono né salgono, non soffrono, non hanno corpo né lacrime. Sono idoli che non rispondono e a cui i sacerdoti fanno dire ciò che vogliono.

Non stupisce, quindi, che a un certo punto faccia capolino anche la solita Dea Ragione, che oggi abita il mondo incarnata in tribunali, commissioni, rapporti, advisor made in ONU. È un dato di fatto: la liturgia è diventata procedura e la procedura coscienza. Una bocca che parla al proprio orecchio, autoreferenziale, incapace di accogliere ciò che non rientra nei suoi dettami totalizzanti.

La ragione di cui facciamo esperienza noi — la cittadella munita di virtù, discrezione e misura — è ormai trattata come un arnese antiquato per chi semina nei solchi della tradizione, coltiva piccoli criteri e raccoglie quel poco di senso da un giardino che non pretende l’eternità, ma a volte ne viene irrorato.

La Ragione evocata in quest’articolo, al contrario, prende posto in cattedra, sul trono, sul pulpito e sull’altare: fazo tuto mi. E così, nel tentativo di farsi principio universale, smette di essere pietra di inciampo per diventare un’ennesima falsa coscienza: un simulacro che imita il linguaggio dell’assoluto senza averne la sostanza.

Il punto, però, è che dopo aver mobilitato tutto questo pantheon — Platone, Socrate, la Ragione universale e una papabile quarta persona trinitaria — si evita accuratamente di fare i conti con la realtà.

E la realtà è quella di una figura pubblica contestata non per capriccio, non per il gusto reazionario di «remare contro lo spirito della giustizia», ma per motivazioni terrene, verificabili, a volte imbarazzantemente elementari.

Si dimentica che le critiche rivolte alla destinataria non provengono da mondi metafisici ostili al Bene, ma da persone, istituzioni, diplomatici, giuristi che sollevano obiezioni precise: dichiarazioni controverse, prese di posizione sbilanciate, frasi infelici, rapporti percepiti come parziali. Nulla che abbia a che fare con la lotta cosmica tra Bene e Male; molto che riguarda gli errori degli uomini e l’ambiguità delle parole quando entrano nella storia.

Ed è qui che il castello simbolico crolla: perché se si decide di elevare una persona a profeta o a Messia, allora ogni contestazione diventa sacrilega, ogni critica una bestemmia contro lo Pneuma. E il dibattito si chiude, soffocato dal sacro.

La verità è che nessuna causa si difende sopravvalutando il proprio campione. Anzi: lo si sopravvaluta proprio quando si intravedono le debolezze della causa. La giustizia si difende con chiarezza, misura e responsabilità: ciò che l’eccesso retorico, per definizione, non ha la pazienza di aspettare.


La quarta persona della Trinità
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