Il leader del partito estrema destra Konfederacja Korony Polskiej (Confederazione della Corona Polacca) Grzegorz Braun, in piedi davanti ai resti di Auschwitz, luogo che da solo basterebbe a zittire ogni arroganza nazionalista, ha proclamato che “la Polonia appartiene ai polacchi, non agli ebrei”. E non pago, ha aggiunto che gli ebrei pretenderebbero uno “status superiore”, arrivando a paragonare la presenza ebraica nel Paese addirittura a “Hannibal Lecter come vicino”.
La reazione è stata immediata, trasversale e più dura del solito. Il ministro della Giustizia, Waldemar Zurek, ha annunciato l’apertura di un’inchiesta contro Braun e il suo partito, ricordando che in Polonia l’antisemitismo non gode di immunità ed è perseguibile penalmente. La stessa immunità parlamentare di Braun potrebbe essere revocata: non è la prima volta che il deputato finisce sotto accusa per aver negato le camere a gas o manipolato la storia dello sterminio. Solo pochi mesi fa Zurek aveva già firmato una richiesta formale di rimozione delle sue tutele parlamentari.
Per Braun l’attacco agli ebrei non è una gaffe ma un vero e proprio metodo politico. Nel 2021 si era reso protagonista di un gesto che aveva fatto il giro del mondo: l’estinzione, con un estintore, della hanukkia installata nel Parlamento polacco. Un’azione deliberata, accompagnata dall’accusa che la celebrazione fosse “anti-polacca”. Da anni è uno dei più rumorosi oppositori delle restituzioni ai sopravvissuti della Shoah e alle loro famiglie, e ora promette di “disperdere ai quattro venti” il Consiglio internazionale di Auschwitz se mai dovesse arrivare al governo. Nella sua visione, Auschwitz-Birkenau sarebbe una “zona extraterritoriale”, quasi a voler cancellare la responsabilità morale e storica del Paese verso quel luogo.
Il problema, però, non è solo Braun. È l’ecosistema politico che gli permette di parlare, e la platea che lo applaude. Che un uomo arrivato quarto alle presidenziali della scorsa primavera si presenti davanti ad Auschwitz per trasformarlo in un palco elettorale dice molto sul clima in cui la Polonia si muove oggi, dilaniata fra la necessità di difendere la propria memoria e la tentazione, sempre ricorrente, di manipolarla per uso interno.
Ed è proprio per questo che il governo ha messo in cantiere una Strategia nazionale di lotta all’antisemitismo e di sostegno alla vita ebraica per il periodo 2025-2030, documento attualmente in fase di approvazione. Non una mossa simbolica, ma un tentativo di definire linee d’azione concrete: educazione storica, vigilanza sulle distorsioni del passato, protezione delle comunità ebraiche, contrasto legale e culturale ai gruppi estremisti.
La Polonia è un Paese che conosce il peso della storia. Lo conosce nei numeri della Shoah, nelle fosse comuni, nei nomi cancellati dai registri, nei villaggi e nei quartieri svuotati. Lo conosce nella vergogna dei collaborazionisti e nell’orgoglio dei giusti che salvarono vite. Ma conoscerlo non basta, quel che è necessario è difenderlo.
Ecco perché l’uscita di Braun non è solo l’ennesima provocazione di un estremista in cerca di visibilità ma un test sulla maturità democratica della Polonia, sulla sua capacità di non lasciare che la memoria venga piegata a un nazionalismo rancoroso. Un test che riguarda tutti: le istituzioni, certo, ma anche quella parte di società civile che negli ultimi anni ha iniziato a riscoprire, con fatica e dolore, il contributo degli ebrei alla storia polacca.
Braun vuole una Polonia “per i polacchi”. Ma la Polonia è stata grande quando è stata plurale, non quando ha tentato di definirsi per esclusione. Ed è proprio ad Auschwitz, dove il nazionalismo portò all’annientamento dell’umanità, che quella lezione dovrebbe risuonare più forte.
Di fronte alle sue parole, non basta l’indignazione ma occorre fermezza. E serve ricordare che chi usa Auschwitz per fare propaganda non difende la Polonia, la tradisce.
La Polonia: l’antisemitismo di Braun e la battaglia per la memoria
La Polonia: l’antisemitismo di Braun e la battaglia per la memoria

