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La pax americana, l’ultima speranza

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La pax americana, l’ultima speranza

Il presidente Trump ci ha abituato in più di un’occasione ai colpi di scena: affermazioni e smentite nel giro di poche ore, dichiarazioni roboanti o decisioni deflagranti per l’economia mondiale poi ridimensionate dai fatti.

Nel caso dei 20 punti della sua proposta per Gaza e per un nuovo equilibrio in Medio Oriente, ci sono alcuni motivi che potrebbero giustificare un cauto ottimismo.

Il primo riguarda l’adesione di molti paesi arabi e musulmani, in passato riluttanti a tagliare il proprio legame con Hamas forse anche per timore dell’integralismo islamico all’interno dei propri confini: Turchia e Qatar ne sono certamente gli esempi più eclatanti e proprio per questo sono eletti mediatori privilegiati nell’azione di convincimento alla resa dei terroristi.

Il secondo sono le implicazioni per Israele: non solo il ritorno degli ostaggi previsto dall’accordo, vivi o morti, ricucirebbe un paese lacerato, ma isolerebbe inevitabilmente la fazione più estremista del governo Netanyahu, infatti da subito contraria alla proposta americana. Il Primo Ministro israeliano si trova con le spalle al muro, isolato internazionalmente, con un paese stremato, spaccato, economicamente in affanno e senza una via d’uscita. Sa con certezza che quello che rimane di Hamas si è ormai mescolato con la popolazione in fuga e che non saranno certo ulteriori bombardamenti o invasioni a chiudere la partita a suo favore.

Il terzo è l’adesione di Putin a questo accordo, probabilmente non certo fatta senza uno scambio del quale non ci è dato sapere nulla. In uno scenario geopolitico mondiale, se Stati Uniti, Russia e anche Cina invocano la fine immediata della guerra in Medio Oriente significa che difficilmente i tempi potrebbero essere ulteriormente dilatati.

Il quarto punto è forse il più importante: il dramma di Gaza, sebbene la narrazione dei media occidentali in gran parte abbia voluto assecondare la propaganda di Hamas, ha scosso profondamente l’opinione pubblica e costretto tutta la politica occidentale a un confronto sempre più acceso. Porne fine significa non solo fermare una tragedia umanitaria le cui immagini rimarranno a lungo impresse, ma anche “sminare” la dialettica politica di buona parte dell’Occidente dal rischio di scontri non più gestibili e di piazze ormai lontane da quelle stesse forze che le hanno promosse.

Naturalmente rimangono molte perplessità: l’accordo prevede un percorso di indipendenza e autonomia per i palestinesi che Netanyahu ha sempre con forza negato, compiacendo in questo modo i suoi ministri più estremisti. L’accordo prevede una ricostruzione dettagliata di quel territorio devastato e non è chiaro cosa avverrà di questa popolazione disperata mentre verranno create le condizioni minime per poter rientrare in quelle che oggi sono solo macerie. Si prevede l’esclusione di qualunque movimento terrorista dal futuro Gaza e un rafforzato ruolo dell’Autorità Nazionale Palestinese. Ma nel 2006 i gazawi votarono il partito di Hamas e non Abu Mazen e, come sempre in quella parte del mondo, le previsioni e tantomeno le semplificazioni sono facilmente smentite dai fatti.

Per i palestinesi non è prevista nessuna deportazione forzata, concetto barbaro che giustamente aveva mosso vibrate proteste anche in Israele, bensì quelli tra di loro che hanno sostenuto Hamas potranno godere di un’amnistia e andare nei paesi che li accoglieranno. Un punto questo certamente combattuto dall’attuale governo dello Stato ebraico ma irrinunciabile per avere il sostegno dei paesi arabi.

In conclusione, dopo due anni, alla vigilia della commemorazione del massacro del 7 ottobre, dopo decine di migliaia di vittime, l’unica opzione è quella proposta dal presidente Trump, seppur piena di incognite e di ostacoli oggettivi: è meglio crederci e sperare che si possa realizzare, anche perché l’alternativa sarebbe un abisso ancora più profondo del quale non si vedrebbe la fine.


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