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La parabola bolognese di Francesca Albanese e il prezzo politico di una cittadinanza divisiva

Giuliano Cazzola

Tempo di Lettura: 4 min
La parabola bolognese di Francesca Albanese e il prezzo politico di una cittadinanza divisiva

Alcuni giorni dopo che il Consiglio comunale di Bologna aveva votato — maggioranza compatta, come un sol uomo — il conferimento della cittadinanza onoraria a Francesca Albanese, partecipai a un incontro con l’ex sindaco Virginio Merola organizzato dal Circolo Marco Biagi. Quando, al termine della sua relazione, si passò alle domande, gli chiesi se durante la sua decennale esperienza amministrativa gli fosse mai capitato di conferire una cittadinanza onoraria e, in tal caso, a chi. Per cortesia avevo premesso che non intendevo metterlo in imbarazzo, né carpire un giudizio sul caso Albanese, ultima impresa del suo successore.

Merola rispose che in due mandati quel riconoscimento era stato concesso a una sola persona: Aung San Suu Kyi, premier del Myanmar perseguitata dopo il colpo di stato del 2021, durante il quale venne arrestata. E aggiunse, raccogliendo la mia domanda implicita, che a suo avviso il conferimento della cittadinanza onoraria non deve essere divisivo, perché tutti i cittadini devono potersi riconoscere nella figura accolta nella comunità.

Con Francesca Albanese il sindaco Matteo Lepore ha scelto un’altra strada, imponendo prima alla maggioranza, poi all’intero Consiglio comunale e infine alla città la cittadinanza onoraria alla relatrice Onu per la Palestina. Questo nonostante, già dopo Bari, la stessa Albanese si fosse esibita a Reggio Emilia mostrando pensiero e arroganza, arrivando a rimproverare il sindaco locale per aver evocato la liberazione degli ostaggi del 7 ottobre come misura per la pace, ottenendo per questo l’applauso dei presenti.

A Bologna la seduta consiliare si svolse il 6 ottobre; due giorni dopo la nuova “cittadina” deragliava nuovamente in tv, abbandonando una trasmissione per una polemica con Liliana Segre, verso la quale aveva rivolto considerazioni offensive sostenendo che la senatrice a vita non fosse «abbastanza obiettiva» per esprimersi sul genocidio. La metafora utilizzata fu abominevole: per informarsi di cancro, disse, si consulta un oncologo — lei — e non un paziente guarito.

A Bologna Lepore tornò a far parlare di sé in occasione della partita di basket tra Virtus e Maccabi Tel Aviv, chiedendone rinvio e cambio di sede per evitare le solite performance delle manifestazioni pro-Palestina, che regolarmente degenerano con gruppi incappucciati pronti ad attaccare la polizia e devastare la città. Tra i partecipanti comparve anche Patrick Zaki, cittadino onorario di Bologna dall’11 gennaio 2021, salvato dal carcere egiziano grazie all’intervento del governo Meloni: un ringraziamento che il giovane beniamino dell’Ateneo bolognese — al quale era stata regalata una laurea — aveva espresso con evidente fatica.

Nel frattempo Francesca Albanese continuava a viaggiare per l’Italia come una Madonna pellegrina, comparendo sul palco delle manifestazioni estremiste accanto a Greta Thunberg, pugno alzato verso il cielo. Ma la vera Albanese è emersa quando ha definito un «monito» per i giornalisti l’assalto con il letame alla redazione de La Stampa. Questa volta l’ha fatta davvero grossa, e non è riuscita a rimediare. Durissime le parole della sindaca di Firenze, Sara Funaro, che ha interrotto l’iter per concederle la cittadinanza a Palazzo Vecchio, inaugurando la stagione del pentimento.

Anche a Bologna si sono levate voci autorevoli: quella del deputato Andrea De Maria, cui si è aggiunto il richiamo quasi patriarcale di Romano Prodi che, secondo il Corriere della Sera, avrebbe dichiarato: «Perseverare è diabolico. Albanese persevera, il Comune di Bologna non faccia altrettanto». Parole rivolte alla giunta bolognese, che per ora non appare intenzionata a revocare la precedente decisione, benché Lepore sia stato costretto a criticare pubblicamente l’ultima bravata di una figura che molti paragonano a Crudelia De Mon.

In questa vicenda sono intervenuti anche gli autori dell’aggressione alla testata torinese, assicurando che per loro «è stato solo l’inizio». Siamo nuovamente al motto maoista del «colpirne uno per educarne cento»? Come spesso accade a un Pd versione Schlein, la linea sembra dettata da formazioni alla sua sinistra.

Nel dibattito sulla mozione delle opposizioni per la revoca, il consigliere Detjon Begaj di Coalizione Civica ha difeso la relatrice Onu sostenendo che «sul banco degli imputati non c’è Francesca Albanese, ma la scelta di questa maggioranza di essere dalla parte giusta della storia, cioè dalla parte di chi, in una istituzione internazionale, ha definito genocidio ciò che è un genocidio non ancora concluso». Una polemica che definire “assurda”, come lui stesso ha fatto, è forse riduttivo.


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