C’è un dettaglio che sfugge dopo l’episodio che ha interrotto il Consiglio comunale milanese, ma che resta nell’aria come un odore stantio: l’antisemitismo. Non quello esplicito, da manuale, che si può condannare con una dichiarazione ufficiale e un comuniato stampa indignato.
Ma quello che si insinua, si mimetizza, si traveste da “protesta legittima”, da “solidarietà umanitaria”, da “critica al governo israeliano”. Quello che non urla “morte agli ebrei”, ma che storce il naso ogni volta che si parla di Israele come Stato legittimo. Quello che non brucia bandiere, ma che brucia il senso critico.
La normalizzazione dell’antisemitismo è un processo lento, ma efficace. Comincia con l’uso disinvolto di parole come “genocidio” e “apartheid” senza contesto, prosegue con la rimozione sistematica della storia e culmina nella delegittimazione dell’identità ebraica. In certi ambienti, dire “Israele” è già una provocazione. Difenderne l’esistenza, una colpa. E così, mentre si leggono i nomi dei civili morti palestinesi (che meritano rispetto e memoria), si dimentica che l’odio non è mai unilaterale. Che anche gli ebrei muoiono. Che anche gli ebrei hanno paura.
A Palazzo Marino, la protesta ha mostrato un volto che non è nuovo, ma che oggi si presenta con il trucco dell’impegno civile. Eppure, sotto il fondotinta, si intravede la vecchia cicatrice dell’odio. Non tutti i manifestanti erano antisemiti, certo. Ma l’antisemitismo era lì, come ospite non invitato che nessuno ha avuto il coraggio di mandare via.
Ecco perché la mamma dei “pro…” è sempre incinta. Perché ogni generazione produce la sua quota di idioti utili, di indignati selettivi, di militanti che confondono la giustizia con il rancore. E intanto, l’antisemitismo si siede in fondo alla sala, applaude piano, e si gode lo spettacolo.
La mamma dei “pro…” è sempre incinta
La mamma dei “pro…” è sempre incinta