C’è un tratto comune che unisce molti divi del cinema e della musica: il bisogno compulsivo di sentirsi dalla parte giusta senza nemmeno sapere quale sia. Li vedi sbandierare simboli come fossero accessori di scena, convinti che basti una kefiya o un hashtag piazzato bene per diventare istantaneamente paladini dell’umanità. Peccato che la maggior parte di loro, se interrogata sulla differenza tra Hamas e un forno ventilato, rischierebbe di confondersi.
Il caso Mannoia, presentatasi al funerale di Ornella Vanoni con la kefiya al collo, è solo l’ultimo episodio della serie: “Guardate ragazzi, sto con i buoni”. Ma quali buoni? La verità è che questi gesti non dicono nulla sulla geopolitica e molto sull’ego di chi li compie. Non è solidarietà: è marketing personale. È un modo per gridare “guardatemi!”, proprio nel momento in cui il pudore sarebbe l’unica forma di decenza.
Da che parte stanno questi divi? Da quella del loro riflesso. Il resto è triste coreografia.
La kefiya sul tappeto rosso
La kefiya sul tappeto rosso
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