La decisione del ministro della Difesa Israel Katz di chiudere Galei Tzahal (Army Radio) entro il 2026 ha aperto una discussione molto più ampia del destino di una singola emittente. Per alcuni è un atto necessario per chiarire i confini tra esercito e politica; per altri è un errore che rischia di cancellare una voce storica e pluralista. Le domande, in realtà, sono più numerose delle risposte.
Secondo il governo, Galei Tzahal ha smesso da tempo di essere una radio “per i soldati” e si è trasformata in un luogo di dibattito politico, con opinioni e analisi che nulla hanno a che fare con la sua missione originaria. Per Katz, un’emittente militare non può permettersi questo ruolo: rischia di trascinare l’IDF dentro polemiche quotidiane, di farlo apparire schierato, di confondere il pubblico su chi parla e a nome di chi. In una democrazia, sostiene il ministro, l’esercito deve rimanere un’istituzione neutrale, e una radio militare che fa giornalismo politico è un’anomalia che va corretta. Da qui l’idea di chiuderla, tutelando i dipendenti civili e mantenendo solo Galgalatz, la stazione musicale che non entra nel terreno dell’attualità.
Molti si chiedono perché la decisione arrivi proprio adesso, in una fase in cui la svolta della pace sembra essere possibile. La risposta sta più nella politica interna che nel contesto regionale. Negli ultimi mesi il governo ha percepito Galei Tzahal come una voce troppo indipendente in un periodo in cui ogni messaggio pubblico viene pesato con attenzione. Le accuse di “politicizzazione” si sono intensificate e la preoccupazione che un’emittente militare potesse influenzare il dibattito civile è diventata più urgente. Allo stesso tempo, il comitato incaricato di valutare il futuro della radio ha appena concluso il suo lavoro, offrendo al ministro l’occasione formale per intervenire. Non è cambiata la crisi, è cambiata la sensibilità politica intorno all’IDF e al modo in cui le istituzioni vogliono essere percepite in un momento delicato.
Dall’altra parte, però, c’è chi vede questa scelta come un impoverimento del panorama mediatico. Galei Tzahal, nel corso dei decenni, è diventata un pezzo di cultura israeliana: una palestra per giornalisti, un luogo dove si sono confrontate voci diverse, un simbolo di apertura in un Paese dove l’esercito è presente in ogni aspetto della vita pubblica. Per i critici, chiuderla significa perdere un ponte tra istituzioni e società, una voce capace di raccontare l’IDF senza essere un megafono dell’IDF. E soprattutto temono che la decisione possa essere letta come un gesto politico: se un governo può chiudere una radio perché non ne apprezza il tono, cosa impedirà a futuri governi di fare lo stesso con altre istituzioni scomode.
Il comitato che ha studiato il futuro dell’emittente ha raccolto migliaia di contributi, ascoltato esperti, famiglie, militari, giornalisti. Ne è uscito un quadro complesso: la radio costa relativamente poco allo Stato, si finanzia quasi da sola, ha un pubblico fedele e trasversale. Ma è anche vero che la sua identità è diventata ambigua, sospesa tra missione militare e ruolo civile, e questa ambiguità oggi pesa più di ieri.
La discussione, quindi, non riguarda solo una frequenza o un palinsesto. Riguarda il modo in cui un esercito parla alla sua società, il confine tra informazione e istituzioni, il valore del pluralismo in un contesto dove la sicurezza è sempre al centro. Riguarda la domanda, più grande e più difficile, su chi decide quali voci possono rappresentare un Paese e quali no. La chiusura di Galei Tzahal non è solo una scelta tecnica, ma un passaggio simbolico: per alcuni è un passo verso una democrazia più ordinata; per altri è un segnale di restringimento dello spazio pubblico. In mezzo, resta un Paese che si interroga su come vuole essere raccontato, e da chi.
La chiusura di Galei Tzahal e il confine sottile tra ordine e libertà
La chiusura di Galei Tzahal e il confine sottile tra ordine e libertà

