Luciano Canfora anticipa la sua ennesima fatica editoriale e, puntuale come un rito antico, riparte il disco rotto: l’Occidente sarebbe una maschera, la democrazia liberale un’invenzione scenografica, Israele un dettaglio fastidioso da rimuovere con una scrollata di spalle accademica (e fors’anche con un bel bombardamento a tappeto?). Canfora non cambia mai, è il suo marchio di fabbrica: il comunista mai appaciato, il sacerdote del bel tempo che fu, il teorico della superiorità morale di un mondo finito sotto le macerie dei gulag.
Il punto non è l’età, e nemmeno la sua erudizione smisurata. È l’incontinenza ideologica, quella sì incurabile: un getto continuo di bile contro tutto ciò che non rientra nel suo pantheon sovietico. Per lui l’unica democrazia del Medio Oriente è una trovata linguistica, una specie di claim pubblicitario per allocchi. La realtà, quella concreta, è bandita dal tavolo: troppo imbarazzante per chi continua a vedere la Storia come un film girato da Eisenstein.
Così, tra una citazione alta e un sospiro sul mondo perduto, Canfora torna a predicare contro l’Occidente degenerato e contro Israele, immancabile oggetto della sua ostilità monocorde. E a noi cosa resta? Una pazienza infinita. Non di lettura: basta leggiucchiare per intuire immediatamente dove andrà a parare. È sempre la stessa melodia, lo stesso diapason che vibra da decenni.
Pazienza, professore. Lei continui pure a danzare nell’eternità sovietica che ha scelto. Noi continueremo a sopportarla, ma senza crederle.
l professore e la sua eternità sovietica
l professore e la sua eternità sovietica
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