A Kissufim, uno dei kibbutz più colpiti dal 7 ottobre, la ricostruzione non è solo un progetto edilizio ma una vera e propria scelta di vita. È il tentativo ostinato di tornare dove tutto è stato spezzato, di ritrovare un’idea di futuro proprio là dove il futuro sembrava finito. Il piano è ambizioso e prevede il raddopio della popolazione, l’accoglienza di giovani famiglie, la riapertura delle abitazioni, la ricostruzione degli spazi comuni, il ritorno di bambini e voci nuove nei cortili devastati dal terrorismo.
Il massacro del 2023 ha però lasciato cicatrici che non si cancellano né sarebbe giusto farlo: quattordici residenti uccisi, sei lavoratori stranieri, quasi tutti gli edifici danneggiati, una comunità evacuata e dispersa. Oggi Kissufim vive provvisoriamente a Omer, vicino alla città di Beersheba ma l’estate prossima, se tutto andrà come previsto, torneranno a casa. Con loro arriveranno decine di nuovi abitanti he hanno chiesto di far parte di questo ritorno: giovani che avevano aiutato nei campi dopo l’attacco, famiglie che avevano già scelto il kibbutz prima della guerra, altri che cercano un posto dove contare davvero, dove essere parte di una rinascita collettiva.
Il presidente del kibbutz, Lior Carmel, lo dice senza metafore: i giovani vogliono essere parte della riabilitazione di Israele, e vivere vicino al confine con Gaza è un modo concreto per farlo. Da qui l’idea di costruire 25 nuove unità abitative nei prossimi anni, con il sostegno del Direttorato Tekuma e fondi propri del kibbutz. Non si tratta certo di una fuga dalla realtà, ma un avvicinamento al suo punto più incandescente e perfino doloroso. Di un dolore che però non può sopraffare la vita stessa.
A Kissufim, la comunità resta il cuore. La piscina aperta di Shabbat, le attività condivise, la libertà di praticare o non praticare la religione, e l’impegno di ciascuno a contribuire ogni mese alla gestione collettiva. Ma oltre a questo va ricostruita anche la fiducia. Ed è comprensibile che la calma si incrini quando, nei campi, si sente parlare arabo e riaffiori lo spavento di quel tragico sabato che ha cambiato non solo Israele ma anche il nostro mondo. La consapevolezza riprende la vita riprende, ma non è più la stessa.
Intanto la parte materiale procede molto velocemente: la stalla è stata ricostruita, moderna e dedicata al suo storico responsabile, Reuven Heinik, ucciso mentre tornava a dare da mangiare alle mucche. Sono previsti fondi importanti per case e infrastrutture, anche se il costo dei materiali e la mancanza di manodopera hanno ridotto il valore reale dei contributi. I residenti devono rivedere i progetti, accettare compromessi, combattere la frustrazione. Ma restano o vogliono tornare.
Carmel non nasconde la fatica emotiva: in una comunità di 270 persone, cinquanta sono state uccise. Non si supera una cosa del genere, quel che fai è imparare a conviverci. Per questo insiste sulla necessità di una commissione d’inchiesta statale che illumini ogni responsabilità: non per vendetta, ma per ricostruire la fiducia spezzata tra cittadini e istituzioni. È un tema che brucia in tutta Israele, e che a Kissufim è questione di respirare o soffocare. E poi c’è l’immagine più semplice e più politica di tutte: il nuovo asilo, già aperto, con sette bambini dai zero ai sei anni. Il segnale che una comunità tenta davvero di rialzarsi non è la posa di una prima pietra, ma il suono di un pianto, di una risata. Lì, tra le case ancora ferite e i container pieni di vite sospese, Kissufim prova a rimettere in piedi il proprio futuro. Un futuro fragile, difficile e pieno di ombre ma anche di vita. E quella, qui, non ha mai smesso di valere.
.
Kissufim, il ritorno alla vita
Kissufim, il ritorno alla vita

