Nonostante la sua maggioranza musulmana e un’eredità sovietica ingombrante, l’Uzbekistan si è rivelato un partner pragmatico e affidabile per Israele. Un Paese di 37 milioni di abitanti incastonato tra Russia, Cina e Iran, che guarda a Israele come modello per innovazione agricola, gestione idrica e sicurezza dei confini: tre settori nevralgici per uno Stato in profonda trasformazione.
I dati parlano chiaro: nel primo semestre del 2025 le importazioni uzbeke di rame da Israele sono aumentate sensibilmente, colmando il vuoto lasciato dal boicottaggio turco contro Gerusalemme. Israele si è mosso con rapidità e precisione, offrendo forniture strategiche e tecnologie avanzate.
Nel caos geopolitico post-2022, Gerusalemme ha intrapreso un processo di diversificazione delle proprie alleanze. I Paesi del Golfo restano cruciali, ma l’attenzione verso l’Asia centrale è in costante crescita. Uzbekistan e Kazakhstan emergono come snodi critici, grazie alla loro posizione e alla crescente volontà di emanciparsi dall’orbita russa. La guerra in Ucraina ha minato l’autorità di Mosca sulle ex repubbliche sovietiche, e Tashkent risponde cercando nuovi equilibri e alleanze intelligenti.
Israele, da parte sua, cerca di circondare l’Iran anche con strumenti economici. Il boicottaggio turco si è rivelato un’opportunità che l’Uzbekistan ha saputo cogliere, posizionandosi come nuovo attore nell’export di rame e materie prime. Al di là del business, Tashkent mantiene una linea politica equilibrata: evita la retorica anti-israeliana e predilige un approccio non interventista.
Nel giugno 2024, l’Uzbekistan ha votato a favore della risoluzione ONU per il cessate il fuoco a Gaza, stanziando 1,5 milioni di dollari in aiuti umanitari. Ma il presidente Shavkat Mirziyoyev ha anche ammonito i giovani a non farsi travolgere dalla propaganda filopalestinese. Dopo l’arresto di oltre cento manifestanti a Tashkent, le autorità hanno adottato misure preventive per evitare derive violente come quelle viste nel Daghestan. La sicurezza interna resta una priorità.
E poi c’è l’Iran. Tashkent osserva con crescente preoccupazione l’influenza militare e ideologica dei pasdaran in Afghanistan, le reti religiose sciite, i traffici oscuri con gruppi radicali. Israele, con la sua esperienza nell’intelligence e nella guerra ibrida, è percepito come un alleato prezioso. La collaborazione potenziale spazia anche alla sicurezza: l’ultimo rapporto ONU (luglio 2024) segnala l’ascesa dell’ISIS-K in Asia centrale, con minacce dirette all’Uzbekistan e razzi lanciati oltre confine nel 2022.
La radicalizzazione – soprattutto tra le comunità migranti in Russia, Iran e Medio Oriente – è una minaccia concreta. Tashkent ha risposto con leggi più severe, programmi di prevenzione e controlli rafforzati alle frontiere. Israele, che ha affrontato sfide analoghe, è considerato un partner ideale anche in questa dimensione.
Nel frattempo, Donald Trump rilancia l’idea di estendere gli Accordi di Abramo all’Azerbaijan, altro Paese musulmano, sciita ma laico, alleato di Israele. Ne risulta un perimetro strategico alternativo: non arabo, ex sovietico, geopoliticamente convergente. Se Tashkent è la porta dell’Asia centrale, Baku è il ponte tra il Caucaso e il mondo turcofono. Entrambi i Paesi rispondono allo stesso schema: contenere Teheran, sfruttare la crisi russa, aggirare l’instabilità araba.
Chi cerca nel mondo musulmano soltanto opposizione a Israele, farà bene a guardare cosa accade in Asia centrale. Tra Tel Aviv e Tashkent si sta costruendo un’alleanza fondata sul pragmatismo e sulla convergenza d’interessi: sicurezza, tecnologia, contenimento dell’Iran. E un nuovo equilibrio sta prendendo forma.
Israele-Uzbekistan, l’alleanza che cambia l’Asia centrale Israele-Uzbekistan, l’alleanza che cambia l’Asia centrale Israele-Uzbekistan, l’alleanza che cambia l’Asia centrale