Cosa accade in Medio Oriente? È questo l’interrogativo che domina la scena internazionale, dai leader politici ai media alle opinioni pubbliche dopo lo scoppio del conflitto aperto tra Iran e Israele. È infatti caduto l’ultimo diaframma che ancora nascondeva alla vista (di alcuni) la vera posta in gioco nella regione: il confronto tra la potenza komeinista e lo Stato ebraico che la prima considera giustamente l’unico autentico avamposto degli Stati Uniti e dell’Occidente nella regione, al punto da profetizzarne apertamente la distruzione e l’eliminazione dalla carta geografica: annientare il “piccolo Satana” per scacciare dal Medio Oriente il “grande Satana”. Dalla conquista del potere nel 1979 gli Ayatollah si sono serviti di ogni mezzo per insidiare la sicurezza di Israele e per destabilizzare l’intera regione, a cominciare dai regimi sunniti ai quali contendono la leadership del mondo islamico per ragioni religiose, ideologiche e strategiche.
Oggi più che mai trova conferma la percezione che il massacro antisemita del 7 ottobre 2023 ha segnato uno spartiacque dal quale non è possibile tornare indietro. Il governo israeliano è determinato a regolare i conti con il suo nemico storico e i suoi sodali una volta per tutte. I colpi sferrati negli ultimi mesi contro i vertici di Hezbollah, Hamas, gli Houti yemeniti e lo stesso Iran in risposta agli attacchi concentrici contro lo Stato ebraico hanno certamente indebolito il regime teocratico al potere in Iran, ma non l’hanno privato della sua arma più pericolosa: la possibilità ormai concreta di dotarsi dell’arma atomica e con essa di tenere per sempre sotto scacco Israele con la minaccia di raderlo al suolo. Una prospettiva terrificante per Gerusalemme, oltreché per i Paesi arabi sunniti e per quanti hanno a cuore il destino di tutto l’Occidente.
La scelta fatta da Netanyahu è sicuramente gravida di rischi come dimostrano il primo bilancio delle vittime in Israele, la relativa vulnerabilità della sua difesa antimissilistica, la difficoltà di colpire (senza l’ausilio americano) gli impianti sotterranei per l’arricchimento dell’uranio. L’Iran potrebbe reagire scardinando la catena di approvvigionamento di gas e petrolio su scala globale e comunque il conflitto pare destinato a durare.
Gli Stati Uniti esitano tra l’ineludibile esigenza di difendere Israele e con esso il proprio ruolo sulla scena internazionale e le prospettive di disimpegno dalla funzione di gendarme del mondo che hanno sedotto milioni di elettori di Trump.
I paesi arabi sunniti condannano pubblicamente l’accaduto ma certo non soffrono delle aspre difficoltà della dirigenza scita iraniana, con il distacco di chi ha saputo delegare ad altri il lavoro sporco.
La Russia oscilla tra la solidarietà con l’Iran, cui deve un decisivo sostegno militare nell’aggressione contro l’Ucraina, e la prospettiva di profittare del conflitto tra Israele e Iran per ritrovare un qualche terreno di intesa con gli Stati Uniti, candidandosi a un immeritato ruolo di onesto mediatore per riaffermare una stantia immagine di superpotenza.
La Cina osserva e tace, come sua abitudine, ma certamente valuta come nel mondo si vada affermando la propensione a regolare i conti nella consapevolezza di averne anch’essa uno ancora aperto, a Taiwan.
In questo scenario di previsioni apocalittiche, di leader politici incerti e divisi, di media trasformati in strumenti di lotta e di opinioni pubbliche inquiete e frastornate ogni sviluppo è possibile, anche il più naturale: che il popolo iraniano si renda conto dell’abisso in cui l’hanno cacciato quasi cinquanta anni di teocrazia e che da qui la storia travagliata del Medio Oriente imbocchi una direzione diversa.
Israele si difende, ma spetta agli iraniani uscire dall’abisso Israele si difende, ma spetta agli iraniani uscire dall’abisso