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Israele. La pace come miraggio, il riarmo come certezza

Shira Navon

Tempo di Lettura: 4 min
Israele. La pace come miraggio, il riarmo come certezza

A Washington e nelle capitali occidentali si discute con eleganza e doverosa apprensione del “giorno dopo”, ma a Gaza il tempo sembra congelato. Il piano Trump promette disarmo, stabilizzazione e una nuova architettura politica per la Striscia; peccato che, sul terreno, la realtà segua una traiettoria diversa, ostinata e, senza apparire allarmisti, brutale. Hamas non è scomparsa, non è collassata, non ha deposto le armi. L’organizzazione criminale sopravvive, si riorganizza e recluta. Ma soprattutto aspetta.

La distanza tra il progetto americano e ciò che accade realmente a Gaza è ormai strutturale. L’idea di una forza internazionale incaricata di disarmare Hamas appare, agli occhi di gran parte degli addetti alla sicurezza israeliani, poco più di una costruzione teorica. Non esiste oggi una forza, né locale né esterna, in grado o disposta ad affrontare decine di migliaia di miliziani radicati nel territorio, protetti da ciò che resta della rete di tunnel e da un controllo sociale che, pur indebolito, resta attivo. Il cessate il fuoco, lungi dall’essere una parentesi neutra, ha creato lo spazio necessario perché Hamas tornasse in superficie, ristabilisse le proprie gerarchie locali e riaffermasse il monopolio della forza.

La Striscia è devastata, priva di risorse e schiacciata da una crisi umanitaria profonda. Ed è proprio l’assenza di un’alternativa politica credibile ad aver consentito – e a continuare a consentire – ad Hamas di colmare il vuoto. Non come il regime compatto e onnipotente di prima del 7 ottobre, ma come un potere di fatto che gestisce l’ordine pubblico, la distribuzione degli aiuti, i mercati e i prezzi. Chi osa discostarsi viene punito, e in modo durissimo, proprio per non lasciare spazio a dubbi su chi comanda. Non si tratta di una rinascita trionfale, quanto di una sopravvivenza organizzata. E a Hamas questo basta e avanza.

A rafforzare questo quadro c’è un altro elemento che raramente entra nel dibattito occidentale: Hamas sta reclutando in modo massiccio. Migliaia di nuovi combattenti starebbero già affluendo nelle sue fila. Meir Dahan, specialista di questioni di sicurezza, descrive questa dinamica come uno degli aspetti più sottovalutati della fase attuale. In una Gaza distrutta, senza lavoro né prospettive, il reclutamento non è un problema ma una leva. Bastano pochi dollari, un’arma, una promessa di appartenenza. Questo dato pesa direttamente sulla strategia israeliana, perché indica che Hamas non si limita a resistere: sta lentamente ricostruendo il proprio capitale umano militare.

Il punto centrale, spesso eluso nel dibattito occidentale, è che Hamas non mostra alcuna intenzione di disarmare davvero. Le dichiarazioni della sua leadership sono esplicite: le armi resteranno finché non esisterà uno Stato palestinese. Tutto il resto è tattica. Distinzioni tra armi “offensive” e “difensive”, depositi sorvegliati, processi graduali: formule che consentono di negoziare senza cedere il cuore del potere. È qui che si annida il bluff: un disarmo sulla carta, accompagnato da una realtà in cui fucili, RPG e milizie restano intatti.

In questo quadro, il ruolo di Qatar e Turchia diventa decisivo. Entrambi spingono per soluzioni che preservino Hamas come attore rilevante, mascherando la continuità sotto il linguaggio della stabilizzazione. Il loro peso su Washington è noto, così come l’interesse a evitare che Gaza diventi un precedente di smantellamento reale di un’organizzazione armata islamista. Il rischio per Israele è evidente: una distensione temporanea che congela l’azione militare e consente ad Hamas di completare la propria riorganizzazione. Due anni di calma apparente possono bastare per preparare il prossimo round.

L’ansia americana di “voltare pagina” rischia così di trasformarsi in un campo minato strategico. Se Hamas resterà in piedi, il messaggio che si diffonderà nell’intero asse della resistenza sarà chiaro: Israele non è riuscito a sconfiggerci. Da Gaza a Beirut, da Teheran a Sana’a, la lezione sarebbe una sola. E le conseguenze non si fermerebbero ai confini della Striscia.

Il paragone con il Libano si impone come un avvertimento. Un territorio in cui un’organizzazione armata resta sovrana di fatto, mentre lo Stato è assente o impotente, è la definizione stessa di instabilità permanente. Senza un progetto politico solido, senza un’alternativa palestinese credibile e sostenuta, Gaza rischia di diventare una nuova versione di quel modello: Hamas indebolita ma intoccabile, Israele costretto a interventi periodici, la guerra sempre rimandata ma mai conclusa.

La verità, scomoda ma impossibile da ignorare, è che nessuno oggi sembra davvero pronto a disarmare Hamas: non la comunità internazionale, non le forze regionali, non i mediatori. L’unica opzione che resta sul tavolo, prima o poi, è quella che nessuno vuole nominare apertamente: un capitolo due della guerra. Non perché sia inevitabile per natura, ma perché lo diventa quando la politica si accontenta dei bluff e chi controlla le armi non ha alcun interesse a posarle.

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Israele. La pace come miraggio, il riarmo come certezza
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