«È il fantasma di scolpire nel marmo costituzionale dell’opinione mondiale che gli ebrei sono dei bastardi — e che, in ogni caso, sono ovunque».
Con questa frase, Gérard Biard, caporedattore di Charlie Hebdo, apre il suo editoriale settimanale, offrendo una lucida e brutale diagnosi del clima morale che circonda oggi Israele e il popolo ebraico.
Israele – Gaza: la guerra che gli israeliani non volevano
L’attacco di Hamas del 7 ottobre è stato uno shock assoluto: per la sua ferocia, per la sua crudeltà, per ciò che ha rivelato del progetto di chi lo ha compiuto. Non era una rivendicazione contro l’occupazione, ma un atto pianificato per mettere fine a Israele. Civili massacrati, bambini presi in ostaggio, famiglie sterminate. Quel giorno è stata assassinata l’idea stessa di coesistenza.
La guerra che ne è seguita non nasce da una decisione politica lucida né da una volontà espansionistica. È apparsa come un riflesso di sopravvivenza, di fronte a un nemico che non si nasconde più: vuole la tua scomparsa. Ma tra la minaccia esistenziale e la risposta armata si apre un abisso morale. Perché questa guerra ha un prezzo — immenso, a volte insostenibile — che gli israeliani pagano ogni giorno, con il lutto, la paura, e la perdita di un’illusione: quella della pace possibile.
Israele non è un blocco monolitico. È un paese attraversato da tensioni, proteste, dissenso. Nel 2023, centinaia di migliaia di cittadini sono scesi in piazza contro la riforma giudiziaria del governo Netanyahu. Era il segno di una società lacerata tra identità democratica e derive autoritarie.
Nel mezzo di questa crisi interna, è esplosa la guerra. Molti israeliani la vivono come una doppia spoliazione: privati di un governo che li rappresenti e costretti ora a sostenere un conflitto che non hanno voluto. Non lo fanno con entusiasmo. Lo fanno con angoscia e rassegnazione. Perché, quando ti viene detto che l’alternativa alla guerra è la tua cancellazione, come si può rifiutare?
Ciò che oggi domina in Israele non è l’odio, ma la stanchezza. La stanchezza di vivere sotto minaccia costante. La stanchezza di essere giudicati come potenza brutale, mentre tanti cittadini sono lacerati interiormente. La speranza che li tiene in piedi è una sola: il ritorno degli ostaggi. Finché anche l’ultimo ostaggio non tornerà, nessun israeliano potrà sentirsi in pace.
Una guerra ideologica globale
Ma oltre alla tragedia israeliana, infuria un’altra guerra: più subdola, più pervasiva. È una guerra ideologica, morale, simbolica. Una guerra che ha spostato il bersaglio: non si tratta più di difendere i palestinesi, ma di condannare Israele in quanto tale.
La parola «genocidio» è usata come un martello. Non si analizzano più i fatti, si impongono sentenze. E non contro un governo o un esercito, ma contro un popolo intero. Anche le voci ebraiche pacifiste, umaniste, sono respinte, accusate di difendere un privilegio etnico o mediatico. Le parole non servono più a comprendere: servono a designare un nemico assoluto.
Non si vuole più giudicare Israele. Lo si vuole cancellare. E questa pulsione non nasce nei margini neonazisti. Nasce al centro dei movimenti umanisti e progressisti, in uno slancio che Eva Illouz definisce di «odio virtuoso». Oggi è emancipatore odiare gli israeliani — e, per estensione, gli ebrei.
Il feticcio linguistico di questa mutazione è l’“antisionismo”. Un termine che serve da scudo etico, ma che cela l’antico spettro: quello di un popolo ritenuto troppo potente, troppo influente, troppo colpevole per poter continuare a esistere.
Così il conflitto abbandona la realtà geopolitica e si trasfigura in rito ideologico. Gaza diventa lo specchio deformante in cui si riflette una verità non detta: «Israele non deve più esistere». E con esso, anche la memoria, la dignità e la sicurezza degli ebrei ovunque nel mondo.
Questa battaglia non dice più «giustizia per i palestinesi». Dice: «vergogna eterna per gli israeliani» — e per chiunque sia ebreo.
Israele, Gaza e l’odio virtuoso: la guerra oltre la guerra Israele, Gaza e l’odio virtuoso: la guerra oltre la guerra
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