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Israele e l’accusa di genocidio: un’indagine sulle menzogne infami

Daniele Scalise

Tempo di Lettura: 5 min
Israele e l’accusa di genocidio: un'indagine sulle menzogne infami

È senza dubbio la risposta più sistematica ed elaborata all’accusa infame e infamante di genocidio lanciata contro Israele dopo l’attacco del 7 ottobre 2023. “Debunking the Genocide Allegations: A Reexamination of the Israel-Hamas War (2023–2025)” («Smontare le accuse di genocidio: una riesamina della guerra Israele-Hamas») è un cristallino rapporto pubblicato dal Begin-Sadat Center for Strategic Studies, firmato da quattro studiosi di indiscutibile autorevolezza: lo storico militare Danny Orbach (Università Ebraica di Gerusalemme), il collega Yagil Henkin (Shalem College), l’analista statistico Jonathan Boxman e l’avvocato specializzato in diritto internazionale umanitario Jonathan Braverman.

Non ci facciamo troppe illusioni e sappiamo bene che gli antisemiti, nei quattro angoli del mondo, continueranno a ignorare la dimostrazione scientifica della propria stupidità e mascalzonaggine.

Il rapporto ha un obiettivo preciso: verificare empiricamente, attraverso dati e fonti primarie, se Israele abbia effettivamente commesso un genocidio nella Striscia di Gaza. Non si tratta di un’analisi etica o giuridica, bensì di una minuziosa radiografia dei fatti. E i fatti, secondo gli autori, raccontano una storia ben diversa da quella veicolata dai media e dai circoli politici.

Uno dei nodi centrali è l’accusa secondo cui Israele avrebbe affamato intenzionalmente la popolazione di Gaza. Tuttavia, le cifre spesso ripetute — come quella dei famosi 500 camion al giorno di aiuti — non reggono alla prova dei dati ufficiali delle Nazioni Unite: nel 2022, ad esempio, la media era di 292 camion al giorno, e solo 73 trasportavano generi alimentari. Contrariamente alla narrazione dominante, nel periodo 2006-2022 Gaza ha registrato un miglioramento nei tassi di mortalità infantile e un aumento dell’aspettativa di vita, indicatori che non lasciano presagire una crisi umanitaria pregressa. I dati, insomma, sono stati piegati alle esigenze propagandistiche di Hamas e amplificati da media e ONG, senza che alcuno si prendesse il disturbo di verificarli.

Il rapporto, peraltro, è tutt’altro che tenero con Israele, tanto da segnalarne gravi errori. La decisione del governo Netanyahu di bloccare gli aiuti nel marzo 2025 viene criticata come miope e controproducente, nonostante il saccheggio sistematico da parte di Hamas. Il problema è che molti dei resoconti apocalittici sulla fame nella Striscia si basavano su stime errate, omissioni e persino manipolazioni di dati da parte di organismi internazionali, che hanno successivamente corretto le proprie cifre. Peccato però che l’abbiano fatto in sordina, tanto che nessuno se n’è accorto.

L’indagine non si ferma qui. Una delle accuse più gravi è quella di stragi deliberatamente commesse contro i civili. Eppure, su 50.000 vittime riportate dal Ministero della Salute di Gaza (e già parlare di un “ministero della Salute” in mano a una banda di criminali terroristi è un raccapriccio semantico), solo 61 casi — su cui comunque pesano dubbi — possono essere interpretati come potenziali uccisioni volontarie da parte di soldati israeliani. Non si riscontra alcuna prova forense di massacri a distanza ravvicinata o esecuzioni di massa. In alcuni episodi, come l’attacco a paramedici a Tal al-Sultan, emergono dubbi fondati, tanto che i ricercatori chiedono che vengano condotte indagini serie. Parlare di «genocidio», però, è — secondo gli autori — una forzatura inammissibile. E noi aggiungiamo: indecente.

Il testo entra poi nel merito della guerra urbana. Hamas ha costruito il sistema di tunnel più vasto mai documentato nella storia militare e ha integrato le proprie infrastrutture belliche in quelle civili, facendo della popolazione gazawi uno scudo umano consapevole. Quartieri, scuole, ospedali e persino zone designate come «sicure» sono state usate per il lancio di razzi o come basi operative. Tutto questo ha avuto un impatto diretto sulle operazioni dell’IDF, rendendo estremamente difficile — se non impossibile — distinguere tra civili e combattenti.

Lo studio documenta come Israele abbia talvolta rinunciato a colpire obiettivi importanti pur di evitare danni collaterali. L’uso di bombe non guidate — spesso denunciato — è spiegato non solo da motivazioni tattiche, ma anche dalle limitazioni di mercato: non esistono risorse illimitate di armamenti di precisione. Inoltre, le accuse secondo cui Israele avrebbe utilizzato droni per «cacciare bambini» si scontrano con l’inesistenza di tali sistemi d’arma nell’arsenale israeliano.

Il capitolo dedicato ai dati sulle vittime è tra i più impietosi. Secondo gli autori, Hamas impone da anni che i combattenti uccisi siano registrati come «civili», e il ministero della Salute di Gaza non fa eccezione. La cifra del 70% di vittime donne e bambini, tanto ripetuta, è un falso usato strumentalmente fin dall’inizio del conflitto. Anche i dati su fame, carestia e malnutrizione estrema non trovano alcun riscontro: persino un’indagine familiare condotta da un accademico critico verso Israele ha mostrato che i decessi per malnutrizione sono stati statisticamente trascurabili.

Il saggio, infine, mette sotto accusa l’intero sistema di raccolta e diffusione delle informazioni da parte di organizzazioni umanitarie, agenzie dell’ONU, media e ONG: fonti poco affidabili che si autoalimentano in un circolo vizioso, con citazioni incrociate, assenza di verifica e una predisposizione ad accettare senza riserve le voci provenienti da Gaza, per lo più sotto controllo di Hamas. Un esempio storico aiuta a capire: negli anni ’90, si disse che mezzo milione di bambini iracheni erano morti a causa delle sanzioni ONU. Era una totale menzogna. Eppure quel dato, ormai radicato nell’immaginario collettivo, continua a circolare e a essere ripetuto.

La conclusione è netta, e insieme inquietante: se tutto viene chiamato «genocidio», il termine perde ogni significato. Se ogni guerra urbana con alti costi umani è etichettata come sterminio, allora le vere azioni genocidarie del passato — e del futuro — rischiano di passare inosservate. L’effetto paradossale — insistono gli autori — è che si finisce col banalizzare il genocidio, offrendo un alibi ai futuri carnefici.

In un’epoca in cui la prima vittima della guerra è la verità, questo studio tenta di riportare il dibattito sui binari della verifica, del confronto delle fonti e della responsabilità analitica. Un antidoto, quanto meno, contro le semplificazioni tossiche della propaganda.


Israele e l’accusa di genocidio: un’indagine sulle menzogne infami
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