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Israele e il Terrorismo Internazionale

Giorgio Denicolai

Tempo di Lettura: 4 min
Israele e il Terrorismo Internazionale

Il terrorismo internazionale non è soltanto una minaccia alla sicurezza degli Stati, ma una leva geopolitica che riflette tensioni ideologiche, religiose e strategiche. Israele occupa in questo contesto una posizione singolare: è bersaglio privilegiato di attori non statali, è soggetto attivo nel contrasto transnazionale al terrorismo, ed è elemento catalizzatore di dinamiche regionali che spesso fungono da giustificazione o pretesto per atti terroristici. Voglio qui proporre un’analisi strutturale del ruolo di Israele nel contesto del terrorismo internazionale.

Fin dalla sua fondazione nel 1948, Israele è stato percepito da molte organizzazioni jihadiste e panarabiste come un’entità illegittima imposta dall’Occidente nel cuore del mondo arabo-islamico. In questo senso, gli attacchi terroristici contro Israele non vanno letti solo in chiave nazionale, ma come parte di un più ampio scontro ideologico e religioso.
Gruppi come Hamas, Hezbollah, ma anche al-Qaeda e l’ISIS, inseriscono Israele all’interno di una narrazione escatologica: la liberazione della Palestina viene presentata come dovere religioso, mentre la presenza ebraica viene demonizzata. Questo schema trasforma Israele da semplice Stato-nazione a simbolo di un “male globale” contro cui giustificare ogni forma di lotta, anche armata.

La questione palestinese costituisce uno dei principali strumenti di mobilitazione nei territori arabi e islamici. Organizzazioni terroristiche sfruttano le immagini della sofferenza civile, in particolare a Gaza e in Cisgiordania, per legittimare le proprie azioni violente e reclutare nuovi membri. Il conflitto israelo-palestinese è dunque spesso funzionale alla costruzione del consenso ideologico, non solo locale ma anche transnazionale.
Israele è anche uno degli attori statali più attivi nella guerra globale al terrorismo. La sua strategia si fonda su tre pilastri: intelligence preventiva, azione militare mirata e diplomazia di sicurezza.

Le agenzie israeliane, in particolare il Mossad (intelligence estera) e lo Shin Bet (sicurezza interna), sono riconosciute a livello globale per l’efficacia delle loro operazioni. Israele ha adottato un approccio proattivo che include l’eliminazione mirata di leader terroristici, la penetrazione di cellule jihadiste e la cooperazione con altri servizi segreti (soprattutto USA ed Europa).
Israele ha sviluppato inoltre una dottrina militare volta a dissuadere i gruppi armati attraverso risposte rapide e mirate. Le operazioni in Libano (contro Hezbollah) e a Gaza (contro Hamas e la Jihad Islamica) sono esempi di questa strategia. Tuttavia, tali azioni alimentano dibattiti su legalità, legittimità e proporzionalità dell’uso della forza, soprattutto alcuni gruppi politici europei cavalcano il dibattito a solo scopo elettorale e per piccoli interessi di bottega.

Un punto critico dell’approccio israeliano riguarda il cosiddetto “paradosso della sicurezza”: le operazioni antiterrorismo, pur risultando efficaci a breve termine, possono generare nel lungo periodo radicalizzazione nella popolazione civile esposta alla violenza.
Le campagne militari israeliane sono spesso associate a perdite civili, danni infrastrutturali e restrizioni, temporanee e non, ai diritti umani. Questo produce un capitale simbolico enorme per i gruppi terroristi, che si presentano come difensori dei civili contro un aggressore “colonialista” e “imperialista”.
Le uccisioni mirate, la detenzione amministrativa e l’uso della sorveglianza di massa diventano oggetto di condanne perlopiù strumentali da parte di ONG e organismi internazionali. In un contesto globale dove il rispetto del diritto umanitario è sempre più centrale, Israele si trova spesso sotto scrutinio internazionale, in una posizione molto complicata da gestire nel medio periodo e sempre più difficile da sostenere nel lungo termine.

Israele è non solo vittima ma anche variabile catalizzatrice nella dinamica del terrorismo internazionale. La sua alleanza con gli Stati Uniti, la normalizzazione dei rapporti con alcuni Paesi arabi (come Egitto, Emirati, Bahrain, Marocco), e le tensioni con Iran e Siria lo pongono al centro di una rete di equilibri instabili.
L’avvicinamento di Israele ad alcuni Stati sunniti ha indebolito la narrazione panislamista, ma ha rafforzato l’asse della “resistenza” guidato dall’Iran. Questo genera una pericolosa polarizzazione in cui il terrorismo diventa strumento di proiezione strategica indiretta, come nel caso degli attacchi condotti da proxy (Hezbollah, milizie sciite, ecc.).
Infine, Israele continua a essere usato come simbolo per giustificare attentati in Europa, Africa e Asia. Molti attacchi terroristici in Occidente, pur non collegati direttamente al conflitto israelo-palestinese, lo citano come “pretesto” ideologico per colpire obiettivi ebraici o occidentali.

In conclusione, si può affermare che Israele è intrinsecamente legato alle dinamiche del terrorismo internazionale. Qualsiasi analisi geopolitica seria deve tenere conto di questa complessità. La sfida futura sarà quella di trovare un equilibrio tra sicurezza e diplomazia, tra difesa e diritto, tra azione militare e risoluzione politica. Senza una soluzione equa che consenta di stabilizzare la questione palestinese, e senza una revisione multilaterale delle strategie antiterrorismo, il ruolo di Israele nel terrorismo globale resterà al centro di una dinamica instabile e altamente polarizzante.


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