«La solidarietà con Israele assalito il 7 ottobre era ovvia… ma non avremmo mai pensato che le cose si sarebbero disposte in un circuito infernale come la Riviera di Gaza e in una strisciante annessione per fame». Così scrive Giuliano Ferrara, strenuo difensore del diritto alla vita dello Stato di Israele.
Ma come si è arrivati al punto che Ferrara descrive?
La guerra è stata scatenata da Hamas, con l’aggressione del 7 ottobre 2023. In quel giorno di terrore, Israele ha rivissuto l’incubo della persecuzione. Donne e uomini israeliani si sono sentiti ricondotti a quel destino ebraico da cui pensavano di essere sfuggiti, costruendo uno Stato nel cuore del Medio Oriente. La risposta militare è stata inevitabile. Tuttavia, ha funzionato la trappola tesa da Hamas: provocare una reazione così dura da ribaltare la narrazione. Così, la vittima di un pogrom brutale è diventata, agli occhi di molti, l’aggressore; il popolo sopravvissuto alla Shoah è stato accusato di genocidio.
Era esattamente l’obiettivo di Yahya Sinwar. Giuliano Ferrara lo definisce con efficacia: «una maledetta inversione della colpa».
Perché, a quasi ottant’anni dalla fondazione dello Stato di Israele, siamo ancora qui?
Il Medio Oriente è disseminato di occasioni mancate. Ai palestinesi fu offerta la possibilità di costituire uno Stato almeno tre volte nel Novecento: nel 1937, con la proposta della Commissione Peel; nel 1947, con la risoluzione 181 dell’Assemblea Generale dell’ONU; infine nel 2000, a Camp David, con l’offerta dell’allora premier israeliano Ehud Barak. Tutte e tre le proposte furono rifiutate.
Ma anche Israele ha compiuto errori.
Nei vent’anni successivi alla sua nascita, lo Stato ebraico fu guidato da una leadership – a cominciare da David Ben Gurion – che aveva accettato il principio della spartizione. Lo stesso Ben Gurion rinunciò all’idea di una soluzione monostatuale e accettò la proposta della Commissione Peel, secondo la quale meno del 20% della Palestina sarebbe andato agli ebrei, e il 70‑75% agli arabi.
Dopo la guerra dei Sei Giorni del 1967, questa linea si è progressivamente persa. Israele ha rifiutato di riconoscere che la questione palestinese era diventata la vera questione del conflitto arabo‑israeliano. L’unico a comprendere la centralità del problema fu Yitzhak Rabin, che si impegnò nei negoziati di Oslo. Fu assassinato da un estremista ebreo.
A complicare i negoziati contribuirono l’escalation degli attacchi del fondamentalismo islamico e il crescente peso delle forze religiose ultraortodosse sui governi israeliani. Dal 1977, i governi di destra avviarono una politica di colonizzazione dei territori che contraddiceva la strategia del «territorio in cambio della pace». Prese piede l’ideologia del «Grande Israele», secondo la quale i territori occupati dovevano essere gradualmente incorporati mediante una rete di insediamenti ebraici, strade dedicate e separazioni logistiche che di fatto marginalizzavano i palestinesi.
I governi guidati da Benjamin Netanyahu hanno consolidato questa politica, accelerando l’espansione degli insediamenti e lasciando che a Gaza si rafforzasse Hamas. Una scelta cinica, mirata a indebolire l’Autorità Nazionale Palestinese e a far naufragare definitivamente l’ipotesi dei due Stati.
Così si è arrivati al 7 ottobre. Alla guerra.
E ora? Giuliano Ferrara lo scrive chiaramente: «Il conflitto è ormai al di là del bene e del male, la guerra è diventata una maledizione per Israele». L’assedio che minacciava di soffocare Israele è stato spezzato. Hamas, con la morte di Sinwar, ha perso la sua guida militare. Hezbollah è stato contenuto. Il rischio immediato del nucleare iraniano sembra allontanato.
Ma Israele vuole davvero partire da questi risultati? O rischia di restare prigioniero dell’euforia fanatica di gruppi nazionalisti che lo condannano all’isolamento?
Oggi serve una strategia nuova. Bisogna pensare a un’amministrazione post‑bellica per Gaza. Un governo straordinario di transizione, senza Hamas, con il sostegno dei Paesi arabi moderati. Una struttura in grado di garantire aiuti, ricostruzione, sicurezza. Una cabina di regia che coinvolga Unione Europea, Stati Uniti, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti.
È urgente inviare un segnale forte al popolo palestinese, stremato dall’occupazione e dal dominio brutale di Hamas. Se invece Israele dovesse proseguire lungo la strada del «Grande Israele», annettendo di fatto i territori e favorendo l’espulsione dei palestinesi, allora il riconoscimento dello Stato palestinese, sebbene simbolico, diventerebbe una scelta obbligata. Al tempo stesso, andrebbe sostenuta quella parte della società israeliana – centinaia di migliaia di persone – che manifesta contro il governo Netanyahu. Tra loro ci sono uomini e donne che hanno ancora un familiare ostaggio nei tunnel di Gaza, eppure continuano a battersi per una soluzione politica, democratica, umana.
Sono loro – e non i fanatici – il futuro possibile per Israele.
Israele e il futuro, dopo il 7 ottobre Israele e il futuro, dopo il 7 ottobre Israele e il futuro, dopo il 7 ottobre