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Israele “criminale” e l’ipocrisia delle parole che non si usano mai

Costanza Esclapon

Tempo di Lettura: 3 min
Israele “criminale” e l’ipocrisia delle parole che non si usano mai

Israele, Gaza, l’Iran, Trump. Sono i temi del momento. Se ne parla nei bar, sui social, nei talk e persino nelle piscine di Capalbio, dove le signore tra il bagnomaria in piscina e una partita a bridge disquisiscono di geopolitica come se fossimo in una succursale dell’ONU. Per passare poi a domandarsi angosciate se a Saint Tropez c’è ancora l’orda dei vacanzieri.
Tutti parlano. Tutti sanno.
Improvvisamente, l’Italia è diventata un gigantesco seminario sull’uranio arricchito. Gente che non sa come funziona il fotovoltaico spiega con disinvoltura la differenza tra arricchimento al 3% e al 60%. Un popolo di novelli Enrico Fermi, con competenze acquisite su Instagram.
Una volta eravamo tutti commissari tecnici. Oggi, siamo tutti analisti dell’ISPI — e a volte, va detto, più convincenti degli originali.

C’è però un dettaglio interessante: la disinvoltura con cui vengono distribuiti certi aggettivi. Uno in particolare: “criminale”.
Lo si legge e lo si sente ovunque: “Il governo criminale di Israele”, “il criminale Netanyahu”. Lo dicono opinionisti, influencer, cantanti, sindacalisti, conduttori, comici e baristi. È un riflesso condizionato. Non si può parlare d’Israele senza premettere “criminale”, quasi fosse una regola grammaticale.

Curiosamente, questa coerenza morale si sgonfia quando si parla dell’Iran. O di Hamas. Di Hezbollah. Degli Houthi.
Nessuno scrive: “i terroristi di Hamas riferiscono che…”. Nessuno si azzarda a dire “il criminale Khamenei”. Hamas “rilascia un comunicato”. Hezbollah “reagisce”. Teheran “condanna”. E tutto resta dentro i margini rassicuranti del politicamente corretto.

Cos’è successo? Com’è che chi lancia razzi su obiettivi civili o giustizia minorenni nei cortili delle carceri, arresta e uccide studentesse per un velo mal sistemato, viene trattato con una cautela semantica che si nega a un governo democratico?

Il problema non è solo linguistico. È culturale. È l’idea — strisciante, ma pervasiva — che a Israele non si applichino le stesse categorie del resto del mondo. Che l’unica democrazia del Medio Oriente debba sottostare a un codice morale diverso, più severo, più ipocrita.
Un trattamento speciale. Di quelli che non si fanno per rispetto, ma per pregiudizio.

E allora sì: le parole contano. Soprattutto quelle che non si dicono mai.
Perché chiamare “criminale” un governo eletto e usare il guanto bianco con chi criminale lo è davvero, è molto più che un errore di stile. È una resa culturale.
Una che, spesso, inizia al bar ma finisce per arrivare a influenzare la politica e di conseguenza la nostra democrazia.


Israele “criminale” e l’ipocrisia delle parole che non si usano mai
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