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Iran, quando la generazione TikTok parla a Israele sopra la testa degli ayatollah

Shira Navon

Tempo di Lettura: 3 min
Iran, quando la generazione TikTok parla a Israele sopra la testa degli ayatollah

Da qualche settimana, sui social iraniani sta accadendo qualcosa che fino a poco tempo fa sarebbe sembrato impensabile. Su TikTok e Instagram, giovani iraniani – spesso a volto scoperto, con un linguaggio diretto e disarmante – non si limitano più a denunciare la crisi economica, ambientale e politica del Paese. Si rivolgono esplicitamente a Israele. E il messaggio è chiaro, ripetuto, quasi implorato: non attaccate, questo regime cadrà da solo.

È una frattura che si apre in piena luce tra il potere e la società. Da un lato un regime ossessionato dalla distruzione di Israele, dall’altro una generazione che individua negli ayatollah la causa diretta delle proprie sofferenze quotidiane. L’ostilità verso Gerusalemme, pilastro della retorica ufficiale della Repubblica islamica, non è più percepita come un destino condiviso, ma come una gabbia ideologica utile solo a perpetuare il potere.

Il contesto è quello di una crisi profonda e multilivello. Le sanzioni internazionali mordono, l’inflazione divora stipendi già fragili, l’accesso a elettricità e acqua è sempre più intermittente. Ma è soprattutto la catastrofe ambientale ad aver trasformato la frustrazione in rabbia politica. Il lago di Urmia, un tempo uno dei più grandi bacini salati del Medio Oriente, è ormai quasi completamente prosciugato. Le immagini “prima e dopo” rimbalzano sui social come un atto d’accusa permanente contro decenni di cattiva gestione.

A Teheran la situazione non è meno allarmante. Il suolo sprofonda di decine di centimetri ogni anno a causa dello sfruttamento eccessivo delle falde acquifere, al punto che le autorità hanno evocato pubblicamente l’ipotesi di spostare la capitale. Un’ammissione che suona come una resa e rafforza, tra i più giovani, l’idea di vivere sotto un potere incapace persino di garantire la sopravvivenza fisica del Paese.

In questo clima prende forma anche una rottura simbolica. Sui social riaffiora una nostalgia esplicita per l’Iran pre-1979: il leone e il sole, i riferimenti alla monarchia, i tributi a Reza Shah. È una nostalgia paradossale, coltivata da una generazione che non ha mai vissuto quell’epoca, ma che la utilizza come arma di delegittimazione del presente. Per il regime è un’umiliazione pubblica, virale, difficile da censurare del tutto.

Per Israele questi segnali sono ambivalenti. Da un lato indicano che l’odio proclamato da Teheran non coincide con il sentire di ampi settori della popolazione iraniana. Dall’altro raccontano la fragilità di un potere che, sentendosi assediato internamente, potrebbe essere tentato di spostare il conflitto all’esterno. La storia recente insegna che, quando il consenso vacilla, l’escalation resta una tentazione.

Eppure, per la prima volta da anni, una voce diversa attraversa lo spazio pubblico iraniano. Non è un manifesto politico strutturato, non è un’opposizione organizzata. È qualcosa di più fragile e più potente: una generazione che parla direttamente al nemico ufficiale del regime, scavalca la propaganda e dice, in sostanza, che questa guerra non è la sua.


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