Gli strike israeliani del 13-25 giugno scorsi non hanno portato purtroppo al regime change necessario per ripristinare davvero la democrazia in Persia. E così, ancora costretti a chiamarlo Iran, dobbiamo registrare in quel povero Paese, sottoposto a indicibili condizioni di sottomissione civile alla sharia teocratica sciita, violazioni di ogni sorta dei diritti umani e civili. Si registrano violenze, arresti aleatori, torture indicibili nel carcere di Evin. Tutto questo mentre l’Occidente tace, l’opinione pubblica europea preferisce voltare lo sguardo e l’informazione italiana sembra dimenticare completamente che esista una questione iraniana. Le donne, i dissidenti, gli oppositori? Bah, non è affar nostro, paiono dire i circoli illuminati degli indignati a senso unico. Se ci sono ebrei da condannare, bene. Se non ce ne sono, niente.
Eppure i dati che l’opposizione iraniana permette di farci arrivare sono allarmanti, a tratti incredibili.
Noi non fingeremo di non averli. Setteottobre non si conforma alla consegna del silenzio che i media italiani hanno stretto con l’Iran.
Noi sappiamo che il problema della pace, dei diritti, della libertà si chiama dittatura sciita di Teheran.
E sappiamo cosa sta accadendo a Teheran in questi giorni. In una nota della resistenza iraniana, che abbiamo scelto di riportare e far nostra, gli oppositori democratici descrivono un Paese ostaggio di un potere che usa la paura come unica forma di legittimazione: le esecuzioni capitali vengono elencate come un vero e proprio strumento di governo, con quasi un migliaio di impiccagioni in un solo anno e un trend che non accenna a diminuire. Molti dei giustiziati sono giovani, manifestanti delle proteste del 2019 e del 2022, attivisti per i diritti civili, appartenenti alle minoranze etniche e religiose. Le famiglie spesso non vengono avvisate, i processi sono sommari, le “confessioni” estorte sotto tortura; le impiccagioni pubbliche servono a terrorizzare la popolazione, quelle segrete a cancellare gli oppositori nel buio delle prigioni.
Nella stessa nota, la resistenza ricorda come proprio gli strike di giugno siano stati usati dal regime come pretesto per una nuova ondata di repressione: centinaia di arresti con l’accusa di “collaborazione con il nemico” o “propaganda contro lo Stato”, colpevoli di aver scritto un post, fatto una telefonata all’estero, espresso un dubbio nel posto sbagliato. Le sezioni dei detenuti politici a Evin e in altri penitenziari sono al collasso; i tribunali rivoluzionari promettono “procedimenti rapidi”, traduzione: sentenze già scritte, senza avvocati indipendenti né garanzie minime.
Le donne, nella nota della resistenza, non sono una categoria ma il cuore ferito del Paese. A loro viene negato perfino il diritto di scegliere come vestirsi. Il regime ha inasprito le norme sul velo, moltiplicato pattuglie morali, sanzioni, aggressioni: migliaia di fermi amministrativi, multe, violenze fisiche e psicologiche per chi osa sfidare l’obbligo di hijab. Chi resiste rischia anni di carcere con accuse di “corruzione morale” e “offesa ai valori islamici”; alcune finiscono nel braccio della morte, altre scompaiono in una geografia di prigioni che l’Europa finge di non vedere.
La nota denuncia anche la persecuzione sistematica delle minoranze: curdi, baluci, arabi ahwazi, sunniti vivono in uno stato d’assedio permanente. Intere regioni sono sottoposte a raid notturni, sparizioni forzate, fuoco vivo sulle manifestazioni pacifiche. Episodi come i massacri nelle province di confine vengono elencati con date, luoghi, nomi: un catalogo dell’orrore che non trova spazio nei nostri talk show. Nei tribunali rivoluzionari, le torture – fisiche, psicologiche, sessuali – vengono descritte come routine: isolamento prolungato, privazione del sonno, minacce ai familiari. L’obiettivo non è solo estorcere una confessione, ma spezzare la possibilità stessa di una resistenza organizzata.
Infine, la resistenza iraniana punta il dito contro il silenzio europeo. Non chiede eserciti, chiede la fine della complicità morbida: sanzioni mirate contro i responsabili delle esecuzioni e della repressione, sostegno concreto alle famiglie delle vittime e ai prigionieri politici, riconoscimento pubblico della società civile iraniana, rafforzamento degli strumenti internazionali che indagano sui crimini del regime. È scritto con chiarezza: il vero salvagente del potere teocratico non sono i missili, ma l’indifferenza di chi continua a trattare Teheran come un interlocutore “normale” e il suo popolo come un dettaglio collaterale.
Iran, la forca parla mentre l’Europa tace
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