Il detonatore, questa volta, è la moneta. Il rial ha toccato nuovi minimi, oltre quota 1,3-1,4 milioni per un dollaro, e la svalutazione si è tradotta subito in inflazione: prezzi che corrono, stipendi inchiodati, risparmi che si polverizzano. Non stiamo parlando di macroeconomia, ma di vita quotidiana: il carrello della spesa diventa un referendum e il cambio valuta un bollettino. Con l’inflazione sopra il 40% e beni di base sempre più cari, cresce anche la fuga verso oro e valuta forte, l’unico salvagente per chi può permetterselo. Chi non può, stringe la cinghia.
Quando si muove il Bazar di Teheran non siamo nel campo del folclore, costituendo quello un vero e proprio sensore politico. Negli ultimi giorni si sono visti scioperi, serrande abbassate, proteste tra bottegai e lavoratori in più città, con interventi della sicurezza e uso di gas lacrimogeni. Il presidente Masoud Pezeshkian ha provato una mossa che, per gli standard della Repubblica islamica, suona quasi come un’eccezione. Ha infatti parlato di dialogo e ha incaricato il ministero dell’Interno di dare ascolto alle richieste definite legittime. Non si tratta di una vera e propria apertura ma del tentativo di gestire un rischio, un modo per prendere fiato e dividere la rabbia, mentre gli apparati tengono in mano la clava.
I margini reali sono del resto stretti. Le sanzioni restano, le entrate petrolifere non bastano a stabilizzare la valuta, la corruzione è un sistema nel sistema. Qualunque misura tampone – sussidi, controlli, promesse, capri espiatori ai vertici della banca centrale – rischia di essere inghiottita dal ciclo svalutazione-prezzi. E poi ci sono le carenze croniche come energia e acqua, blackout e razionamenti che, in un Paese già infiammabile, diventano benzina.
Sullo sfondo c’è il fattore che rende tutto più instabile: il dopo-guerra con Israele e il dossier nucleare. Nel 2025 l’Iran ha subito colpi diretti su infrastrutture militari e nucleari; da allora la linea è doppia e contraddittoria: ricostruire capacità senza offrire un casus belli, e al tempo stesso alzare il costo strategico in regione attraverso reti e milizie alleate. È una politica di attrito, ma l’attrito consuma anche chi lo produce. Il rapporto con l’AIEA resta avvelenato: dopo gli attacchi Teheran ha limitato la cooperazione, e a dicembre l’Agenzia è tornata a denunciare buchi e opacità su accessi, verifiche e materiale arricchito. Nel frattempo da Washington arrivano avvertimenti: se l’Iran riparte davvero sul nucleare, la minaccia di nuovi strike rischia di concretizzarsi in men che non si dica.
Dentro, il regime risponde come è abituato, e cioè attraverso misure di sicurezza, di controllo sociale, di intimidazione permanente. Aumentano gli arresti e le accuse di spionaggio, cresce la paranoia, i mezzi di informazione vengono tenuti sotto schiaffo. Anche sul mare l’IRGC – il Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica dell’Iran – continua a esibire muscoli nello Stretto di Hormuz e a fine dicembre ha sequestrato una petroliera “straniera” vicino a Qeshm, ufficialmente per contrabbando. Non è solo polizia economica ma semmai un promemoria sulle leve che Teheran può ancora azionare, soprattutto quando vuole ricordare al mondo che l’Iran non è un problema locale.
E poi c’è la variabile che tutti osservano ma pochi nominano, e cioè la successione. Ogni voce sulla salute della Guida, ogni rimescolamento negli organi di controllo, ogni promozione di un duro viene letta come preparazione del dopo. In un sistema costruito sull’autorità, l’idea del “dopo” è un accelerante tanto da spingere i clan a posizionarsi e il Paese a chiedersi quanto ancora si può tirare.
L’Iran chiude l’anno così, tra moneta ridotta in cenere, pane che manca e paura che cresce. Ma anche con un potere che tenta di non arretrare, pur sapendo che ogni giorno di tenuta costa un pezzo di legittimità.
Iran, la crepa si allarga
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