La decisione israeliana di autorizzare nuovi insediamenti in Giudea e Samaria ha sollevato l’immediata condanna della comunità internazionale. Anche il presidente del Consiglio italiano Giorgia Meloni ha ribadito che gli insediamenti sarebbero «contrari al diritto internazionale» e che rischiano di compromettere definitivamente la prospettiva di due Stati. È una presa di posizione che ricalca la linea europea e di molte cancellerie occidentali. Ma è davvero così semplice ridurre la questione a una violazione di legge?
Il punto è che, sul piano strettamente giuridico, il dossier è meno lineare di quanto si creda. Israele ha sempre sostenuto che la Cisgiordania non fosse, al 1967, territorio di uno Stato sovrano. L’annessione giordana non era riconosciuta, Gaza era sotto amministrazione egiziana senza che vi fosse un atto di sovranità. Per questo parlare di «occupazione» in senso tecnico è improprio: sarebbe più corretto definirli territori contesi, sui quali valgono regole diverse rispetto a un’occupazione classica.
Un altro nodo riguarda l’articolo 49(6) della IV Convenzione di Ginevra. Questa norma vieta i trasferimenti forzati di popolazione, ma i coloni israeliani non sono deportati né costretti: scelgono volontariamente di stabilirsi oltre la Linea Verde. Israele interpreta quindi la norma in senso restrittivo, negando che l’insediamento volontario rientri nel divieto, pensato per evitare le deportazioni di massa del Novecento.
Esiste poi un argomento storico-culturale che va oltre il mero diritto internazionale. Gli ebrei non sono un corpo estraneo trapiantato in Medio Oriente: sono un popolo nativo di quella terra, il cui legame con la Giudea e la Samaria è attestato da millenni di presenza, memoria storica e tradizione religiosa. Non a caso, il Mandato britannico per la Palestina, approvato nel 1922 dalla Società delle Nazioni, non solo riconosceva ma incoraggiava esplicitamente l’insediamento ebraico in tutta la regione, inclusa l’attuale Cisgiordania. Quell’atto, mai formalmente abrogato, viene ancora oggi richiamato da Israele non solo come base giuridica, ma anche come riconoscimento internazionale del legame profondo e originario tra il popolo ebraico e la sua patria ancestrale.
Chi invoca l’illegalità, compresa Giorgia Meloni, cita le risoluzioni ONU e i pareri della Corte Internazionale di Giustizia. Ma qui si apre un’altra crepa: le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza che condannano gli insediamenti sono state adottate sotto il Capitolo VI della Carta, quindi non hanno forza vincolante. Lo stesso vale per le opinioni consultive della CIJ, che sono pareri autorevoli ma non fonti primarie di diritto internazionale.
Non sorprende quindi che un documento come il Rapporto Levy, commissionato dal governo israeliano nel 2012 e redatto da un ex giudice della Corte Suprema, abbia concluso che Israele non può essere considerato potenza occupante in senso tecnico e che gli insediamenti non siano intrinsecamente illegali. È una posizione controversa, ma non priva di fondamenti giuridici.
Alla luce di tutto ciò, la condanna espressa da Giorgia Meloni appare più politica che giuridica. È legittima, naturalmente, e in linea con la sensibilità diplomatica europea. Ma il rischio è quello di confondere piani distinti: l’opportunità politica degli insediamenti, indubbiamente problematica, e la loro qualificazione giuridica, che resta materia controversa e tutt’altro che chiusa.
Forse sarebbe più utile riconoscere questa complessità, evitando formule semplicistiche che alimentano più lo scontro retorico che la ricerca di soluzioni. Gli insediamenti restano potenzialmente un ostacolo politico alla pace, ma definirli «illegali» in modo assoluto significa ridurre una questione giuridica e storica articolata a uno slogan diplomatico.
Insediamenti in Giudea e Samaria: diritto, storia e politica oltre gli slogan Insediamenti in Giudea e Samaria: diritto, storia e politica oltre gli slogan Insediamenti in Giudea e Samaria: diritto, storia e politica oltre gli slogan