L’espulsione di Mohamed Shahin, imam egiziano da oltre vent’anni residente a Torino e guida della moschea Omar Ibn Al Khattab di via Saluzzo, è una decisione giusta e necessaria. Non c’è nulla di arbitrario nel decreto firmato dal Viminale: è l’applicazione ordinaria degli strumenti che uno Stato di diritto utilizza quando individua figure che, per radicalità, linguaggio e contesto, rappresentano un rischio concreto per la sicurezza nazionale.
Colpisce invece la reazione del Partito Democratico, ancora una volta pronto a difendere l’indifendibile. Il senatore Andrea Giorgis chiede «per quali motivate ragioni di ordine pubblico» sia stata disposta l’espulsione di un uomo incensurato, come se il problema fosse la fedina penale e non il ruolo di influenza esercitato da un predicatore che ha pronunciato parole incompatibili con la convivenza civile, poi ritrattate solo quando la pressione pubblica è diventata insostenibile.
È l’ennesima dimostrazione di un approccio alla sicurezza talmente ingenuo, immaturo e ideologico da far pensare che la sinistra italiana stia concorrendo deliberatamente a rimanere all’opposizione ancora per molto tempo.
Da parte del centrodestra, invece, il messaggio è stato chiaro. L’eurodeputata Anna Maria Cisint ha parlato di «predicatore d’odio vicino a Hamas» e ha ringraziato il ministro dell’Interno Piantedosi e il sottosegretario Molteni per un atto definito «doveroso», chiedendo inoltre regole precise per le comunità islamiche, il censimento dei luoghi di culto e la chiusura dei centri islamici abusivi, spesso zone grigie dove è impossibile verificare cosa venga predicato.
La questione non è criminalizzare l’Islam, la cui grande maggioranza vive in Italia rispettando leggi e istituzioni, ma garantire trasparenza e prevenzione in un momento storico in cui la radicalizzazione corre veloce, soprattutto tra i più giovani. L’espulsione di Shahin si inserisce in questo quadro e va letta come un segnale di responsabilità, non come un capriccio autoritario: non possiamo permetterci leggerezze, né tollerare che figure con capacità di influenza sociale diventino vettori di propaganda estremista.
La sicurezza non è un’opzione politica ma un dovere, e uno Stato che ignora il rischio jihadista per non disturbare il dibattito interno è uno Stato che abdica alla propria funzione più elementare. L’Italia ha agito nel modo corretto. Chi oggi lo mette in discussione dovrebbe chiedersi se la propria bussola politica punti davvero verso l’interesse nazionale o verso una sterile battaglia identitaria che continua a rendere la sinistra irrilevante ogni volta che il tema è sicurezza.
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